Nel libro Cesare, ricordo di Cesare Gàrboli, Rosetta Loy parla di Vado, in Versilia, del compagno e di sé.
Io ho amato tantissimo i lunghi silenzi di Vado e le sere invernali con la pioggia che rigava i vetri.
Rosetta Loy
Nel libro Cesare, ricordo del saggista e critico Cesare Gàrboli (Viareggio 1928 – Roma 2004), Rosetta Loy (Roma 1931) dedica all’opera letteraria di chi fu il suo compagno di vita la maggior parte delle pagine. Ma qua e là, con franchezza, la scrittrice racconta i viaggi o i periodi trascorsi nella casa di famiglia di Gàrboli a Vado, nella provincia di Viareggio in Toscana. Questi passaggi personali non solo accrescono il valore della memoria ma permettono di sentire la mano ferma dell’autrice, sempre dotata di una chiara voce propria.
Io ho amato tantissimo i lunghi silenzi di Vado e le sere invernali con la pioggia che rigava i vetri. I ritratti che risalivano agli anni Trenta e uno stralunato Cesare diciannovenne dipinto da Morlotti con «occhi stupefatti e sbarrati che fissano incantati il futuro che li aspetta». Ho amato la sua solitudine popolata da una miriade di tazze e tazzine sbeccate, piatti spaiati di porcellane famose superstiti nella credenza insieme a bicchieri di Baccarat e brocche dal manico rotto. I letti ampi come barche per affrontare l’oceano della notte o poco piú che scatole per imprigionare il sonno dei lattanti che ricevano ancora l’ombra dei platani, appena mossa dal vento che scende dalle Apuane. Gli armadi che si aprivano cigolando su pile di coperte tarlate e vestiti appartenuti a chissà chi, in chissà quale tempo.
Ho amato perfino quelle gigantesche pentole dai coperchi ammaccati che si affollavano nella credenza della cucina: e appena veniva aperto lo sportello scivolavano giú sul pavimento una appresso all’altra, con un rimbombo che risuonava fino al piano di sopra. La mastodontica affettatrice rossa dalla lama mangiata dalla ruggine, inamovibile dal ripiano di marmo su cui era stata appoggiata al tempo delle «cinque | dolci sottane tra il sofà e la radio».
Un quadro di dimensioni degne di Versailles li celebrava ancora all’apice dello splendore: padre e madre in alto all’ombra di un ulivo, e giú lungo il pendio quelle cinque sorelle che sembravano venirti incontro con le loro camicette bianche, le gonne blu e i nastri nei capelli. In primo piano la maggiore seduta sul prato con un vestito giallo-arancio, in braccio la prima nata della nuova generazione. Cesare sul lato sinistro, in piedi, appoggiato a un albero. Cesare ragazzo con i pantaloni corti e le mani in tasca, un ciuffo di capelli sulla fronte e la mano sollevata a moderare l’entusiasmo del cane che lo imprigiona con le zampe al tronco. Un quadro talmente grande che quando Cesare venderà la casa di Vado trasmigrando prima a Firenze e poi alla periferia di Viareggio, resterà sempre imballato perché non ci saranno piú pareti in grado di contenerlo.
[…]
Due grandi platani allungavano a Vado i loro rami fino a sfiorare le finestre del secondo piano: da uno pendeva ancora una vecchia altalena rotta mentre simile a un lungo dito teso verso il cielo si disegnava sulla sinistra una piccola ciminiera di mattoni rossi (a che servisse non l’ho mai saputo, forse al tempo delle «cinque dolci sottane tra il sofà e la radio» alimentava il forno che ricavava la sansa dallo scarto delle olive). A volte l’inverno il silenzio era cosí profondo che avvertivo lo scricchiolio dei tarli; e sul vetro appannato dal fiato disegnavo col dito le nostre iniziali intrecciate, la pioggia che gocciolava giú nel buio. Gli ultimi due anni un passero sbatteva di continuo contro una delle finestre davanti al soggiorno. Sempre la stessa: ingannato dal riflesso dei rami del platano? Il rumore del becco contro il vetro era ossessivo come se volesse comunicare qualcosa. Cosa? Un avvertimento?
[…]
È nato a Vado il mio libro piú fortunato.
All’inizio, seduta davanti alla mia Olivetti lettera 32, mentre Cesare si trasformava nel rigoroso detective che ha decretato la messa al bando della fantasia, io penetravo come un veggente nella vita di quel suo antenato partito volontario dalla val d’Ossola al seguito di Napoleone per andare a sconfiggere lo zar Alessandro I.
Un giovane boscaiolo folgorato dalle parole liberté, egalité, fraternité che aveva lasciato la sua casa e la moglie per affrontare l’ignoto di una guerra nella sconfinata distesa dell’impero dei Romanov, a migliaia di chilometri dai confini conosciuti. Ma dopo mesi e mesi di battaglie e di marce estenuanti, una volta arrivato a Mosca nell’ottobre del 1812, si era ritrovato in un’armata allo sbando nella città in preda alle fiamme, appiccate dalle truppe in ritirata dello zar: una tempesta di fuoco che divorava una dopo l’altro le isbe e i palazzi, si avvitava intorno alle cupole colorate delle chiese. Scintillava nella Moscova serrata fra le sponde lucenti di ghiaccio. Cosí quel ragazzo partito con tanto entusiasmo al seguito di Napoleone, mentre l’armata francese, incalzata dalle truppe del generale Kutuzov, si disgregava come la polvere investita da un tornado, aveva fatto a ritroso tutto il tragitto nel freddo siderale dell’inverno russo, sbandando ora a destra ora a sinistra in una sconfinata pianura ghiacciata; e nel marzo successivo, stremato dalla fatica e dalla fame, si era ritrovato a Königsberg (oggi Kaliningrad), sulle rive del Mar Baltico. Aveva allora cominciato a girovagare fra paesi sconosciuti per trovare la strada che lo riportasse in val d’Ossola; ma quando dopo mesi, o forse anni, aveva picchiato col pugno alla porta di casa, la moglie che gli aveva aperto si era ritratta spaventata di fronte a quel fantasma che aveva davanti: solo ossa e stracci. Un’esperienza talmente terribile che l’antico soldato dell’armata napoleonica l’aveva poi cancellata dalla sua vita. E solo al momento di morire si era tirato su dritto sul letto urlando: «I russi, aiuto, aiuto i russi!»…
Ma quando sono arrivata a quell’ultimo urlo ho capito che lui era solo l’inizio. E da quell’antenato di Cesare, nato in una famiglia di boscaioli della val d’Ossola, sono sbucati fuori uno dopo l’altro i personaggi de Le strade di polvere come se un legame sotterraneo lo unisse alle storie che sentivo bambina sui morti che a Mirabello tornavano a picchiare ai vetri o facevano squillare nella notte la campanella sulle scale. Lui fosse l’humus che permetteva al mio racconto di crescere in un paesaggio totalmente diverso, fatto di nebbia e di pioppi, di colline degradanti di vigne.
E mentre Cesare affronta ogni giorno il suo serrato confronto con l’antagonista di turno, senza mai lasciarsi corrompere dalla fantasia, nella stanza accanto io vengo risucchiata da quella magica lanterna che lancia bagliori a intermittenza: è adesso come se la mia storia trasudasse dai muri di Vado, dai vestiti appesi da tempo immemorabile negli armadi dalle ante cigolanti e le coperte tarlate impilate una sull’altra. Trovasse il suo alimento nella vecchia altalena rotta rimasta a penzolare fra i rami del platano e nella miriade di tazze e tazzine sbeccate, bicchieri di Baccarat superstiti insieme alla teiera di maiolica disegnata di scene agresti da cui ogni pomeriggio ci versiamo il tè. Dalle molle rotte delle poltrone e i coltelli corrosi dalla ruggine. La gigantesca affettatrice rossa in cucina: inamovibile dal suo ripiano di pietra.
Le strade di polvere verrà pubblicato da Einaudi nel settembre 1987 e sarà il libro che cambierà la mia vita; ma contrariamente a quello che uno si aspetta il suo successo mi toglierà quella cieca fiducia in me stessa che avevo quando non ero ‘nessuno’. E potevo aspirare a essere ‘tutto’.
Tratto da Cesare (Einaudi 2018).
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