L’attimo prima, romanzo d’esordio di Francesco Musolino (Messina 1981) sulla perdita e sul trascorrere del tempo.
L’attimo prima, romanzo d’esordio di Francesco Musolino (Messina 1981), offre una riflessione sulla perdita e sul trascorrere del tempo. La morte improvvisa del padre impedisce al giovane Lorenzo di compiere il viaggio al Nord dove l’avrebbe atteso un futuro di studi; la sua vita cambia inesorabilmente. Il romanzo si sviluppa intorno al ricordo, al tempo della chisura su se stessi, dell’attesa e infine della scelta di fare comunque qualcosa per andare incontro a nuove possibilità. Riportiamo qui alcuni brani.
Mio padre se n’è andato all’improvviso. La vita è cambiata in fretta e sotto i nostri occhi, senza un preavviso, uno starnuto una febbre un malanno qualsiasi, senza darci il tempo di capire che cosa stesse accadendo. Un urlo, un tonfo. Nient’altro. Solo una parola: aneurisma. Quello fu l’inizio e la fine della vita come la conoscevo da figlio, credendo stupidamente che sarebbe potuta durare per sempre, con gli occhi fissi sul soffitto ad aspettare che i miei sogni diventassero realtà.
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Adulti all’improvviso, in quel modo impetuoso, a strappi e violento, così lo si diventa da un giorno all’altro quando si perde un genitore amato. Così lo eravamo diventati noi. Così era successo a me, ancora nel pantano ma adulto, esposto e incerto, senza stadi intermedi. Frangibile. Dov’è il confine fra la gioventù e l’età della ragione? Esiste un solco, una cesura univoca, un punto di non ritorno fra lo stadio dei sogni e quello in cui bisogna essere concreti? Per noi, per me, non era stata quella domenica di quasi un anno prima – l’urlo, il tonfo, le note del Bolero – ma i giorni successivi, apparentemente identici, avevano la stessa copertina, non avevano cambiato nome, lunedì martedì mercoledì giovedì venerdì sabato domenica, eppure avevano preso un altro gusto, un sapore amaro. Sì, moriamo tutti. Ma finché siamo figli restiamo sempre giovani, poi di colpo dobbiamo crescere. È una maturazione obbligata, senza scampo, né remissione di peccati. C’era un prima, quel passato terso e dai contorni chiari e definiti. E c’era un dopo, questo presente infinito, dilatato e senza nulla all’orizzonte.
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Mi manca l’estate. Anzi, mi mancano le estati già passate, quelle vissute senza consapevolezza. E forse è proprio questo il mio cruccio più grande, rendermi conto della bellezza a posteriori, della leggerezza che mi sono già lasciato alle spalle, quei momenti impalpabili che non torneranno più, sudore già asciugato, tramonto già finito, l’abito della festa ormai sgualcito sulla sedia, baci presi e dimenticati, le emozioni fredde, stinte al mattino. E questo cosa mi rende, un sentimentale, un pavido o semplicemente, un adulto?
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Era tutto perfetto allora, fra quelle quattro mura, o sto mitizzando i ricordi? Chissà. E forse la vita in fondo è tutta qui, nell’inseguimento di un piacere che sfugge, di un ricordo, di una felicità assaporata fugacemente, troppo presto, in modo inconsapevole, momenti che risplendono nella nostra memoria, ricordi di ricordi che più si allontanano e più ci sembrano perfetti.
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Arriverà un giorno, presto o tardi, in cui useremo gli elettrodi o i composti chimici per simulare ogni sapore, ingannando le nostre papille gustative fra l’acido e il basico, riproducendo in laboratorio le patate affumicate o l’aroma dei funghi. Avremo ogni cosa a nostra disposizione. Ma sarà un bene? Non è più dolorosamente significativo l’atto di legare un piatto, una ricetta, a una persona, sapendo che quando non ci sarà più, smarriremo quel sapore? Finché un giorno, inaspettatamente, seduti in un ristorante ad Atene o nella cucina di un amico a Milazzo, nella casualità del dosaggio degli ingredienti mescolato al calore della fiamma, un frammento di quel gusto perduto tornerà a lambiccare la fortezza del ricordo, riuscendo a spaccarci il cuore, spalancando per un istante il portale della memoria. E saremo ancora una volta bambini, ingenuamente felici.
Tratto da L’attimo prima (Rizzoli, 2019).
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