Cosa c’è di più doloroso, quando scriviamo, che perdere il nostro lavoro? È quanto succede ad Anna Banti con Artemisia, in una Firenze devastata dai bombardamenti nell’estate del 1943.
Cosa c’è di più doloroso, quando scriviamo, che vedere distrutto il nostro lavoro? È quanto succede ad Anna Banti (1895-1985), pseudonimo di Lucia Lopresti, una delle maggiori scrittrici del nostro ‘900. In una Firenze devastata dai bombardamenti, Banti scopre di aver perduto sotto le macerie il manoscritto al quale lavora da tempo: il ritratto letterario di Artemisia Gentileschi, “pittrice valentissima fra le poche che la storia ricordi. Nata nel 1598, a Roma, di famiglia pisana. Figlia diOrazio, pittore eccellente. Oltraggiata, appena giovinetta, nell’onore e nell’amore. Vittima svillaneggiata di un pubblico processo di stupro. Che tenne scuola di pittura a Napoli. Che s’azzardò, verso il 1638, nella eretica Inghilterra. Una delle prime donne che sostennero colle parole e colle opere il diritto al lavoro congeniale e a una parità di spirito fra i due sessi. Le biografie non indicano l’anno della sua morte.”
Ma c’è qualcosa che sempre riscatta dalla morte, ed è il ricordo. Così Banti intesse un monologo sul suo personaggio che diviene dialogo, confronto, ed anche resurrezione e riscatto: nell’impossibilità di ritrovare quelle “cento pagine di scritto” tra le quali riposava la figlia di Orazio Gentileschi, Banti nel nuovo testo ne recupera scorci, tratti, momenti; la sua scrittura corre lungo gli anni dell’infanzia, della giovinezza e della maturità di Artemisia attraverso le esperienze difficili, i viaggi, l’affermazione di sé come artista e la solitudine; sempre profonda e sempre attenta alla vera questione: la capacità per un’artista di ricorrere al proprio mezzo espressivo, alla propria arte, come fonte di salvezza.
Riportiamo qui l’incipit del libro, in cui la scoperta della perdita del manoscritto si rende palese all’autrice.
“Non piangere.” Nel silenzio che divide l’uno dall’altro i miei singhiozzi, questa voce figura una ragazzetta che abbia corso in salita e voglia scaricarsi subito di un’imbasciata pressante. Non alzo la testa. “Non piangere”: la rapidità dello sdrucciolo rimbalza ora come un chicco di grandine, messaggio, nell’ardore estivo, di alti freddi cieli. Non alzo la testa, nessuno mi è vicino. Poche cose esistono per me in quest’alba faticosa e bianca di un giorno d’agosto in cui siedo in terra, sulla ghiaia di un vialetto di Boboli, come nei sogni, in camicia da notte. Dallo stomaco alla testa mi strizzo in lagrime, non posso farne a meno, in coscienza, e ho il capo sulle ginocchia. Sotto di me, fra i sassolini, i miei piedi nudie grigi; sopra di me, come le onde su un affogato, il viavai smorto della gente che sale e scende l’erta da cui vengo, e che non può curarsi di una donna accoccolata in singhiozzi. Gente che alle quattro del mattino si spinge come gregge spaurito a mirare lo sfacelo della patria, a confrontare colla vista i terrori di una nottata che le mine tedesche impiegarono, una dopo l’altra, a sconvolgere la crosta della terra. Senza rendermene conto, piango per quello che ciascuno di loro vedrà dal Belvedere, e i miei singhiozzi seguitano a bollire, irragionati, balenandoci, pazze festuche, ilponte Santa Trinita, torrioni dorati, una tazzina a fiori in cui bevevo da piccola. E di nuovo, mentre mi fermo un istante e raccapezzo, nel mio vuoto, che dovrò pure alzarmi, quel suono “non piangere” mi tocca in fretta come un’onda che s’allontana. Alzo finalmente la testa che è già una memoria, e in questa forma gli presto orecchio. Taccio, attonita, nella scoperta della perdita più dolorosa.
Sotto le macerie di casa mia ho perduto Artemisia, la mia compagna di tre secoli fa, che respirava adagio, coricata da me su cento pagine di scritto. Ho riconosciuto la sua voce mentre da arcane ferite del mio spirito escono a fiotti immagini turbinose: che sono, a un tempo, Artemisia scottata, disperata, convulsa, prima di morire, come un cane schiacciato. Tutte immagini pulite, nitidissime, rilucenti sotto un sole di maggio. Artemisia bambina, che saltella tra i carciofi dei frati, sul monte Pincio, a due passi da casa; Artemisia giovinetta, chiusa in camera, col fazzoletto sulla bocca perché non la sentano piangere: e irosa, con la mano alzata, a imprecare, i sopraccigli contratti: e giovane bellezza, chino il viso appena sorridente, in veste di gala un po’ severa, per questi viali, proprio per questi viali: la Granduchessa passerà a momenti. Sotto la cenere degli scoppi, senza lagrime mi metto a parlarle: E la finestra di Borgo San Jacopo a cui t’affacciavi sull’Arno? Il ritratto della tua compagna cantatrice, sepolta a Santa Felicita? Non la raggiungo più; o è diventata troppo piccola, lattante addirittura, insieme ai lattanti dei profughi che, sotto ai portici, ricominciano a urlare di fame.
Con una agilità meccanica, ironica, le immagini continuano a fluire, il mondo sconquassato le secerne come un formicaio, non posso fermarle né riconoscere quelle che più mi premono. La bòmbola del latte da distribuire fra due ore al dispensario, le facce delle donne che si lagnano, ognuna con la sua smorfia istantanea di delusione e di scoraggiamento, le due mendicanti piagnone, l’epilettico che chiede l’introvabile stupefacente, l’anginoso con l’attacco, la cantastorie tubercolosa, i cinque bambini imbroglioni che ritirano razione doppia. Per miracolo Angelica, la piccola paralitica, argina la processione: mi ricordo dei suoi occhi celesti, incantati e infidi e di come sua madre, la rivendugliola, dice: “L’è tanto religiosa”. Da quegli occhi m’era venuta la tentazione di una nuova storia, quando non sapevo che avrei perduta Artemisia; e mentre mi domando se Angelica avrà avuta molta paura, vedo all’altezza della sua testa e così nettamente come non mi è mai riuscito un visuccio verdastro di bambina negletta, occhi che tirano al grigio, capelli biondicci, una delicatezza di tratti proterva e strapazzata: Artemisia a dieci anni. Per meglio rimproverarmi e farsi rimpiangere, abbassa le palpebre: come volesse avvisarmi che pensa a qualche cosa e che non me lo dirà mai. […]
A Pitti stridono le cicale umane, è già mezzogiorno, da otto ore la luce è incominciata, da sei i sudafricani sono arrivati e le donne li hanno baciati, come si è potuto vedere dalle finestre infrante della galleria Palatina, nostro rifugio: nel sole torrido una impietosa nausea prendeva chi stava a guardare. Con una intransigenza imperdonabile scaccio lo sbigottito rimpianto di Artemisia, mi vergogno dell’accanimento con cui l’ho intrattenuta in piena guerra, tutta la mattina. Ma so che ricadrò nella mia pazzia e già la sento digrignare nelle mie mascelle: “Non è vero, Cosimo non mi ha stretto un deto”. E’ ferma all’addio a Cecilia a quel che Cecilia ha potuto credere, ascoltare: le donne di casa maligne, quella balia che non mi guardava.
Se penso alle pagine distrutte, al cauteloso arbitrio con cui muovevo una protagonista ora tanto presente, non so più cosa rimpiangere. M’offende l’impeto con cui trascorro al di là di quel che la memoria mi permette, di quel che il racconto portava: pure mi tocca giurare che Cecilia Nari non pensava a male quando increspò le labbra: era il dolore ormai imparato come un contegno a volerla sempre più attenta. Morì. Morì dopo un anno. “Precisamente: nel 1611, di aprile”, rincalzo socchiudendo gli occhi nel sole, rosso, sotto le palpebre, come le fiammelle delle torce nel piccolo funerale.
Tratto da Artemisia (Milano, Rizzoli 1994).
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