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‘E’ di estate nei “Sillabari” di Goffredo Parise (2)

Il signor Morgano li accompagnò alla loro stanza e spalancò le finestre su una grande terrazza che guardava la Certosa e il mare. Coltissimo, il napoletano capì dei due giovani sposi tutto quanto c’era da capire, la natura selvatica ed elegante di lei, il cervello a conchiglia di lui (che già conosceva), notò con occhio guizzante il cerchietto d’oro al dito di lei ma ebbe il genio di dire: -La signorina non conosce Capri? -. Lei intuì il genio del signor Morgano, le piacque molto quel nome di fata, schiuse le labbra ridendo e disse: -No-. A seguito del signor Morgano arrivò un bambino vestito di bianco con un cocomero in ghiaccio, poi scomparvero senza che nessuno li udisse scomparire. La stanza era grande, bianchissima, con soffitto a volta, lenzuola, copriletti, coperte, tutto bianco. Il pavimento era di mattonelle azzurre e su quell’azzurro freddo e lucente in terrazza c’era un tavolo bianco e due grandi chaises longues di vimini dipinte di bianco. Oltre la terrazza c’erano pini e tamerici di due verdi diversi, cupolette bianche, terrazze e giù in fondo, di là dai salti di roccia, il mare blu. Sul mare blu un grande panfilo blu, fermo e ondulante e dietro il panfilo un motoscafo bianco in corsa.

Non uscirono subito perché in quel momento si amavano e perché lei mangiò mezzo cocomero verde e rosso con le mani e, cosa strana, sorrise per la seconda volta. Solo dopo uscirono, percorsero tutta la strada di Tragara fino alla punta. Da lì, senza dire nulla, senza annunciare ciò che sarebbe apparso, lui scese verso i faraglioni tra i pini. Si aspettava un commento ma lei non parlò, arricciò ancora il naso e poi tese le narici per sentire bene l’odore di resina ma non fece nessun commento. Come altre volte egli invece guardò dall’alto le due rocce salire dagli abissi blu tra piccole e lente spume estive, avvolte alla sommità dai grandi branchi di bianchi uccelli planipteridoi (non gli piaceva chiamarli gabbiani, ne diomedei e questo nome lo teneva per sé in omaggio all’autore) tra fortissimi stridi. Ma non seppe resistere e disse alla moglie il suo segreto: – Sai come si chiamano quegli uccelli?-. – I gabbiani? -. – Non so se sono gabbiani, non credo, pare siano di un’altra specie, rara e molto antica. Io li chiamo planipteridoi -. Lei cercò di spalancare i suoi occhi a mandorla. -Pla…- disse, e si fermò. Per concentrarsi l’occhio sinistro si fece un poco strabico, pochissimo. – Planipteridoi – disse l’uomo e la baciò su una guancia. – Pla-ni-pte-ri-doi – ripeté lei con molta attenzione guardando dentro di sé e per aiutarsi a dirlo prese una mano di lui e la strinse forte quasi aggrappandosi. (continua)

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