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“Il pugno chiuso” di Arrigo Boito (5)

Un’efferata violenza caratterizza i personaggi del doppio racconto. Se Levy ha praticato l’usura, il greco Wasili è altrettanto spietato; per recuperare il suo credito farà esplodere la mano dell’ebreo.

***

Il medico meravigliato, esclamò: «Siete pazzo? val meglio un pugno chiuso che un braccio monco».
«E il mio fiorino rosso? – urlò Levy -il fiorino rosso che c’è dentro? lo voglio! tagliatemi la mano, apritemi il pugno, voglio la mia moneta!».
«Non vi farò mai questa operazione; e poi (soggiunse il medico con voce ironicamente marcata) e poi siete proprio sicuro che là quel fiorino ci sia?». Questa interrogazione annichilì il povero ebreo. Non eragli mai sorto nella mente il dubbio d’essere stato il giuoco d’una lunga allucinazione.

La domanda del medico gli insinuò per la prima volta questo dubbio. Subitamente tutta la sua forza crollò. Scosse in aria il pugno per sentire la moneta oscillare; ma il fiorino rosso non si muoveva più, era svanito anch’esso come la fede. L’oro da 24 caratti era svaporato come un fumo; Levy pesava la sua mano e la sentiva alleggerita. Disperato fuggì da Parigi. Aveva speso assai per viaggi, per cure, per medici, ed ecco che se ne ritornava a casa, che riprendeva la via di Czenstokow, che rifaceva le scale della sua soffitta più malato e meno ricco di prima. Il suo milione era diminuito di parecchie centinaia di fiorini: stavano per scadere i tre mesi convenuti con mastro Wasili e la scommessa dei 1.000 fiorini d’oro era perduta. Tre mesi prima, la certezza di tenere in mano il complemento del suo milione e la difficoltà di schiudere quella mano, era per Levy un’angoscia fatale, ma lieve, paragonata al dubbio di quegli ultimi giorni. Quel pugno predestinato, sinistro, impenetrabile come un mistero, era divenuto un enigma più oscuro assai dal dì che la fede aveva fallito. Pareva che si fosse chiuso più strettamente. Prima serrava una moneta, adesso serrava forse il vuoto. Quel forse era la condanna più crudele del povero avaro. Da quando aveva incominciato a dubitare, la smania di aprire quel pugno gli si era fatta più ardente. Egli vedeva che tutti gli uomini aprivano agevolmente le loro mani; quel moto così naturale e così facile gli era interdetto. A volte ciò gli pareva impossibile e tentava co’ sforzi più accaniti di sgominare l’immobilità de’ suoi muscoli di pietra. Tutto era vano. I tre mesi compironsi, e Levy una sera, mentre sedeva davanti il suo scrigno, udì picchiare all’uscio delicatamente.
«Entrate».
Wasili entrò dicendo con giovialità:
«Compare Levy, quà la mano».
«Sì! (ruggì l’ebreo mostrandogli, minaccioso, il pugno) l’ho fatta diventare di marmo per avventartela in faccia, greco maledetto».
«Pace, pace, pace – mormorò Wasili. – Potrei essere benedetto se mi ascolti. Ho una idea pel capo e sai che le idee sono oro: abbi un po’ di pazienza. Soffri ch’io esca e ch’io torni colla tua guarigione, col tocca e sana».
Così dicendo escì. Levy sbalordito si gettò su d’una seggiola ad aspettare. Dopo un quarto d’ora s’udi una briska arrestarsi davanti alla casa dell’ebreo, indi Wasili rientrò con un piccolo sacco sotto il braccio.
«Cosa c’è in quel sacco?».
«La medicina. Lasciatevi curare da me. Fra cinque minuti vedremo la bella faccia di Sigismondo III saltar fuori dalle tue dita, oppure non la vedremo se non ci sarà, ma il pugno dev’essere aperto. Dicesti che hai la mano di marmo ed ecco ch’io ti porto una forza che la aprirà come quella d’un bimbo. La polvere che fa scoppiare le montagne spezzerà agevolmente queste tue vene pietrificate entro le quali c’è forse una preziosa vena d’oro. Lasciati minare il pugno, qui c’è un sacchetto di polvere. L’operazione chirurgica è nuova, pure fidati in me, sai come sono sapiente».


A Levy l’idea della polvere gli parve sublime. Finalmente gli si offriva un mezzo sicuro per uscire dal dubbio. «Se il fiorino c’è (pensava) i mille fiorini entrano nel mio scrigno ed il milione sarà completato ed io sarò lieto per tutta la vita, se non c’è, amen, perderò mille fiorini, avrò il cuore tranquillo fino alla morte», e porse il braccio a Wasili con un gesto possente. Wasili raccolse dal sacco una manata di polvere e si mise attento ad osservare il pugno di Levy. Una epiderme secca e lucida lo avviluppava, le unghie erano penetrate nella polpa, le dita parevano suggellate, il pollice conficcavasi fra la seconda falange dell’indice e del medio, il mignolo s’era così grinzo che sembrava un gruppo informe di nervi, sott’esso appariva un piccolo pertugio formato naturalmente dalle due pieghe del metacarpo. Attraverso quel forellino Levy soleva spiare se la moneta luccicava.

Wasili notò quel pertugio con una pazienza da alchimista e con una sagacia da chiromante: vi infiltrò grano a grano una dose di polvere equivalente ad una cartuccia e mezza di fucile da caccia, indi con un grosso ago la compresse come quando si carca un’arma. Poi disse: «Il mortaio è all’ordine; ora si tratta di spararlo, a ciò basti tu solo. Ma prima chiudiamo le finestre, perchè la moneta, se c’è, non balzi in istrada». Quand’ebbe sprangate le imposte, Wasili prese una miccia di pece e di corda, l’accese e la diede a Levy che la afferrò nella mano sinistra. «Fa tu stesso la tua operazione, – disse Wasili all’ebreo, – io intanto depongo nello scrigno i miei mille fiorini pel caso ch’io debba pagarteli. Perdona se ti volto le spalle: risparmiami la noia di vedere lo scoppio di un così nuovo petardo».

(continua)

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