Si ha l’impressione che appunto dilatando questi viaggi nello spazio e nel tempo, fino ad abbracciare tutta la Sicilia e tutta la storia siciliana, Giuseppe Tomasi sia arrivato a quella visione e concezione delle cose, del passato e dell’avvenire dell’Isola, di cui nella parte centrale del romanzo è portavolce don Fabrizio, nel colloquio col piemontese Chevalley: « Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare… Ho detto i siciliani, avrei dovuto aggiungere la Sicilia, l’ambiente, il clima, il paesaggio. Queste sono le forze che insieme e forse più che le dominazioni estranee e gl’incongrui stupri hanno formato l’animo: questo paesaggio che ignora le vie di mezzo fra la mollezza lasciva e l’asprezza dannata; ch enon è mai meschino, terra terra, distensivo, umano, come dovrebbe essere un paese fatto per la dimora di esseri razionali; questo paese che a poche miglia di distanza ha l’inferno intorno a Randazzo e la bellezza della baia di Taormina, ambedue fuor di misura, quindi pericolosi; questo clima che c’infligge sei mesi di febbre a quaranta gradi; li conti, Chevalley, li conti: maggio, giugno, luglio, agosto, settembre, ottobre; sei volte trenta giorni di sole a strapiombo sulle teste; questa nostra estate lunga e tetra quanto l’inverno russo e contro la quale si lotta con minor successo; lei non lo sa ancora, ma da noi si può dire che nevica fuoco, come sulle città maledette della Bibbia; in ognuno di quei mesi se un siciliano lavorasse sul serio spenderebbe l’energia che dovrebbe essere sufficiente per tre; e poi l’acqua che non c’è o che bisogna trasportare da tanto lontano che ogni sua goccia è pagata da una goccia di sudore; e dopo ancora, le piogge, sempre tempestose che fanno impazzire i torrenti asciutti, che annegano bestie e uomini proprio lì dove una settimana prima le une e gli altri crepavano di sete. Questa violenza del paesaggio, questa crudeltà del clima, questa tensione continua… ».
E tuttavia dentro tanta violenza, tanta crudeltà, tanta febbre e tanta morte, ecco le oasi della dolcezza di vivere, ecco i verdi paradisi dell’infanzia, ecco la bellezza: il palazzo di Santa Margherita, il palazzo di Palermo. « Anzitutto la nostra casa. La amavo con abbandono assoluto e la amo ancora adesso quando essa da 12 anni non è più che un ricordo… Sarà quindi molto doloroso per me rievocare la Scomparsa amata come essa fu fino al ’29 nella sua integrità e nella sua bellezza, come essa continuò dopotutto ad essere sino al 5 aprile 1943, giorno in cui le bombe trascinate da oltre Atlantico la cercarono e la distrussero ».
« Ma la casa di Palermo aveva anche delle dipendenze che ne moltiplicavano il fascino. Esse erano quattro: Santa Margherita Belice, la villa di Bagheria, il palazzo a Torretta e la casa di campagna a Reitano. Vi era anche la casa di Palma e il castello di Montechiaro, ma in quelli non andavamo mai. la preferita era Santa Margherita, nella quale si passavano lunghi mesi anche d’inverno… ».
Leggendo queste pagine, automaticamente la nostra memoria si apre su altra di Vitaliano Brancati: « Tu ed io siamo poveri; mio padre era povero; il padre di mio padre era povero; il padre di costui era povero… Sempre la nostra casa è stata al livello del fango della strada, e sempre abbiamo sentito, al termine del nostro pavimento, battere la pioggia sul selciato. Molti animali di fogna, come blatte, topi, scorpioni, ci conoscono e ci hanno visto dormire! Uno di noi, che possedeva un canarino, fu arrestato, perché dissero che egli non lo aveva tirato dal cielo, ma da una gabbia… E purtroppo era vero! ».
Giuseppe Tomasi dice a un certo punto di non essere d’accordo con Stendhal sulla «qualità» dei ricordi d’infanzia: «Lui interpreta la sua infanzia come un tempo in cui subì tirannia e prepotenza». Ma non sarebbe d’accordo nemmeno con Brancati, nemmeno con noi. E non soltanto per quanto riguarda l’infanzia, ma per l’intera vita.
Così Sciascia conclude il saggio sui luoghi del Gattopardo. A piè di pagina si trova però, in caratteri più piccoli, la seguente riflessione:
« Ho letto con ritardo / Lolita e il Gattopardo. / Così passai l’estate / tra speranze infondate ». Questi versetti di Flaiano, nell’Almanacco del pesce d’oro per il 1960, celavano celiando un giudizio? Il gattopardo era stato pubblicato alla fine del 1958: a chi lo avesse letto un anno dopo, sarebbe davvero apparso un caso letterario « infondato » ? È possibile, dopo il tanto clamor; ma tutt’altro che « infondato» appare oggi, dopo vent’anni. Chi, come me, avanzò allora delle riserve sui contenuti del romanzo, sull’idea che lo informava, oggi è portato a riconoscere che quello che allora parve inaccettabile e irritante nel libro, s’apparteneva a delle costanti della nostra storia che allora era legittimo ricusare o tentare di ricusare, come legittimo era per Lampedusa riconoscerle e rappresentarle. Certo, mancherebbe molto, alla letteratura italiana di questi anni, se il libro non fosse stato pubblicato. E credo sia venuto il momento di rileggerlo; e per i giovani di conoscerlo.
Tratto da Fatti diversi di storia letteraria e civile (Sellerio editore Palermo, 1989).
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