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La montagna, immaginaria e reale, di Lalla Romano: Pralève

Dai suoi soggiorni estivi in Val d’Aosta, Lalla Romano (Demonte, Cuneo, 1906- Milano, 2001) ci restituisce immagini di grande bellezza: sono descrizioni della località immaginaria di Pralève, nella realtà Cheneil.

«Pralève è una sorta di diario di villeggiatura, fatto di ritratti di quelle persone un po’ speciali che incontravo in un paese dell’alta Val d’Aosta, sopra i duemila metri, in cui per una trentina d’anni ho trascorso il mese di luglio.»

Dalla Premessa a Pralève e alri racconti di montagna, scritta da Lalla Romano (Demonte, Cuneo, 1906- Milano, 2001) per l’edizione del 2001.

Pietro Citati lo definì «un libro delicatissimo e intensissimo … [L’autrice] lascia sulla carta tanti piccolissimi tocchi di una sapienza miracolosa: conosce tutti i luoghi, tutte le persone, tutte le ombre, tutti i misteri; non si sa se con più amore o più distanza; e alla fine tutti i fili, che attraversano le pagine, formano un quadro vasto, compatto e profondo, che si addentra in luoghi dove la parola deve tacere».

Riportiamo qui la bellissima descrizione della conca.

La conca

Guardare il bacino di un fiume su una carta topografica è come guardare una foglia con le sue nervature, o il palmo della mano. Dove nasce uno dei solchi più esili, più fini, è un punto particolarmente solitario e bello: Pralève.

Le sue acque – il rigo sottile scende incontro a uno più grosso: il torrente, che a sua volta corre fino al cordone profondo: la valle fluviale – forse non hanno nemmeno un nome. Cadono con salti folli, verticali, giù dagli spalti rocciosi che chiudono a levante la conca; corrono limpide e fredde in un solco sinuoso, serpeggiante, sprofondato nella prateria: corrono veloci e sicure, trasparenti sui sassi neri. Sono le acque delle nevi.

Giunte al margine della conca, di nuovo si buttano a capofitto, invisibili nel folto di boscaglie; e poi ancora, dopo brevi corse su brevi prati come a prendere la rincorsa, si buttano pazze di gioia, con un grido; fino al torrente, laggiù, dalle acque verdi.

Gridi rombi canti di acque sono i suoni della conca ed erano anche quelli della valle, un tempo. Ora soltanto a Pralève si sentono ancora. La valle, non più solitaria, è corsa dalle automobili che non possono fare in senso inverso il balzo del torrente, e nemmeno risalire come il mulo la faticosa mulattiera scavata nei salti della roccia, insinuata tra pietra e pietra, seminascosta fra i cespugli di faggio o nel bosco di larici.

Non è comodo arrivare a Pralève. Non è neanche comodo starci, nel senso che mancano parecchi «conforti»; e questa è la seconda ragione del suo provilegiato isolamento: non meno ovvia e altrettanto insufficiente della prima. Conviene tralasciare le altre: è come cercare le prove dell’esistenza di Dio.

Tratto da Pralève e altri racconti di montagna (Lindau, 2017).

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