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L’immagine dell’emigrante italiano all’estero

Il sogno americano fu per molti italiani un incubo, alimentato da immagini di propaganda in cui l’immigrante viene considerato non solo scuro –prossimo quindi ai disprezzati ‘neri’–, ma anche e soprattuto armato.

The American dream, il sogno americano: questo l’archetipo che generò la grande spinta verso il nuovo continente, intendendo con tale termine soprattutto l’America del Nord, negli anni che vanno dalla seconda metà del secolo XIX ai primi decenni del ‘900, benché l’emigrazione italiana si diresse anche verso l’Argentina, il Brasile, e l’Australia. Da una parte dell’oceano condizioni di povertà e miseria rese ancora più drammatiche dall’annessione del Sud al Regno d’Italia, dall’altra racconti favolosi di un Eldorado di facile conquista, di ‘strade lastricate d’oro’, di soldi fatti ‘a palate’. Punto d’arrivo e primo contatto con la nuova realtà è Nova Jorka, dove prima ancor di metter piede in città si fanno lunghe code negli uffici della dogana, dopo una traversata estenuante durata settimane a bordo del piroscafo che ci ha allontanato da casa con un biglietto di sola andata.

Ma la realtà è ben diversa, e il numeroso contingente che lascia la Sicilia, la Calabria, la Basilicata o la Campania per inseguire il sogno di una vita migliore – si parla di oltre sette milioni e mezzo di italiani presenti sul suolo statunitense nel 1927 -, si scontra immediatamente non solo con la durezza delle condizioni di vita ma anche con i pregiudizi degli Americani nei confronti di questi ‘cafoni’, che pure offriranno le loro braccia per continuare a edificare il colosso occidentale, ivi comprese le strade, che ancora mancano in tante parti del Paese. In un documento redatto nel 1912 dall’Ispettorato statunitense per l’Immigrazione, gli Italiani vengono visti come ‘di piccola statura e di pelle scura’, di loro si dice che ‘puzzano’, che usano i bambini per chiedere l’elemosina nella strade, si parla del loro numero sempre in aumento, dei loro vestiti scuri, delle abitudini rissose, della violenza, del pericolo rappresentato dagli uomini per le donne – s’intende americane. Ci si lamenta della loro lingua incomprensibile e si invita a chiudere loro le frontiere, o almeno a limitare l’ingresso agli Italiani del nord, ignoranti ma almeno più disposti a lavorare dei compatrioti meridionali. Questi ultimi, si dice, sono da ‘rimpatriare’, soprattutto per motivi di sicurezza, e in città come New Orleans o nello stato della Florida, tra il 1886 e il 1916 non mancano episodi di linciaggio, in cui le vittime sono italiani. Il sogno fu insomma per molti un incubo, alimentato da immagini di propaganda in cui l’italiano era visto non solo scuro – dunque prossimo ai disprezzati ‘neri’ – e dedito ai mestieri più umili come lo sciuscià o lustrascarpe, ma anche e soprattuto armato.

Nell’immaginario collettivo, anche per il fatto che in alcuni Stati condivide spazi e quartieri con la popolazione afroamericana, l’immigrato italiano è un reietto. Scrittori come Giuseppe Prezzolini o Mario Soldati, che vissero negli USA negli anni precedenti la Seconda Guerra Mondiale, ci hanno trasmesso immagini della comunità italiana in cui all’ammirazione per gli sforzi di chi lotta per sopravvivere e offrire condizioni migliori ai propri figli, si unisce il disprezzo per gli obiettivi apparentemente mancati: questi, negli occhi di chi è interessato alla cultura italiana più aulica, si centrano nell’incapacità dell’immigrato di generare contributi intellettualmente validi.

In particolare, i nostri scrittori fanno riferimento al linguaggio, permeato di adattamenti e vocaboli al cui centro vi sono la sopravvivenza e il consumo di beni materiali, e dove la nuova identità fa ancora fatica a svilupparsi. La ricerca della quantità, più che la qualità, definiscono questi italiani ibridi, sbarcati nel Nuovo Mondo e rimasti sostanzialmente ai margini della società che li ha accolti, nella quale pure hanno ottenuto modesti progressi – residenza legale, casette situate in periferie industriali, grammofoni, giornali domenicali pieni di annunci. Nel suo America, primo amore, Soldati parla di ‘povertà spirituale e decadenza della nativa civiltà’, e osserva con sguardo severo i ‘villani rifatti’ alla cui tavola viene invitato a sedersi e nella cui sguaiata allegria crede di ravvisare un’intima disperazione. Non molto diversamente, Prezzolini individua la stessa povertà di contributi reali al Paese in cui si vive, benché lo scrittore riconosca agli immigrati il merito di essersi adattati, d’esser divenuti cittadini, e perfino d’essersi solidarizzati col Paese di origine, l’Italia, che non ha dato loro nulla e li ha lasciati partire poverissimi: è il caso della mobilitazione del 1937 a favore delle opere assistenziali dopo la guerra d’Abissinia.

Prezzolini, va detto, riconosce un altro merito all’emigrazione, ed è il fatto d’aver sostenuto l’economia italiana iniettando ricchezza attraverso l’invio di valuta alle famiglie lasciate in patria. E’ interessante notare a questo punto il senso di profondo rispetto che un regista italo-americano come Martin Scorsese dedica alla figura dell’emigrato: discendente di siciliani, nel documentario My voyage to Italy, Scorsese rievoca i progenitori, riscopre a New York la Elisabeth Street, dove vissero i nonni, si riappropria delle origini e rievoca il linguaggio famigliare, notando non solo gli elementi linguistici e rituali che separarono i primi immigrati tra loro e dal resto della società americana, ma anche la progressiva integrazione ad opera delle generazioni successive. Prova dei fatti, diremo noi, la presenza di narratori come lo stesso Scorsese, capaci di ricostruire il ricco patrimonio italiano, e di ricordare il contributo dato all’America e al mondo anche attraverso il nostro cinema.

Ludovica Valentini

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