Con i sensi all’erta, la piccola Marianna Ucrìa affronta il viaggio in carrozza verso Palermo in compagnia del padre. Pubblicato da Rizzoli nel 1990.
Il signor padre è già in carrozza. Ma anziché sbraitare, canta. Lo vede da come gonfia le gote, da come alza le sopracciglia. Appena lei appoggia un piede sul predellino si sente agguantare da dentro e spingere sul sedile. Lo sportello viene chiuso dall’interno con un colpo secco. E i cavalli partono al galoppo frustati da Peppino Cannarota.
La bambina si abbandona sul sedile imbottito e chiude gli occhi. Alle volte i due sensi su cui conta di più sono talmente all’erta che si azzuffano fra di loro miserevolmente. Gli occhi hanno l’ambizione di possedere le forme complete nella loro integrità e l’odorato a sua volta si impunta pretendendo di fare passare il mondo intero attraverso quei due minuscoli fori di carne che si trovano in fondo al naso.
Ora ha abbassato le palpebre per riposare un momento le pupille e le narici hanno preso a sorbire l’aria riconoscendo e catalogando gli odori con pignoleria: com’è prepotente l’acqua di lattuga che impregna il panciotto del signor padre! sotto, si indovina la fragranza della cipria di riso che si mescola all’unto dei sedili, all’acido dei pidocchi schiacciati, al pizzicore della polvere della strada che entra dalle giunture degli sportelli, nonché ad un leggero sentore di mentuccia che sale dai prati di casa Palagonia.
Ma uno scossone più robusto degli altri la costringe ad aprire gli occhi. Vede il padre che dorme sul sedile di fronte, il tricorno rovesciato su una spalla, la parrucca di traverso sulla bella fronte sudata, le ciglia bionde posate con grazia sulle guance appena rasate.
Marianna scosta la tendina color mosto dalle aquile dorate in rilievo. Vede un pezzo di strada impolverata e delle oche che schizzano via davanti alle ruote aprendo le ali. Nel silenzio della sua testa si intrufolano le immagini della campagna di Bagheria: i sugheri contorti dal tronco nudo e rossiccio, gli ulivi dai rami appesantiti da minuscole uova verdi, i rovi che tendono a invadere la strada, i campi coltivati, i fichi d’India, i ciuffi di canne e dietro, sul fondo, le colline ventose dell’Aspra.
La carrozza ora supera i due pilastri del cancello di villa Butera e si avvia verso Ogliastro e Villabate. La piccola mano aggrappata alla tenda rimane incollata alla stoffa, incurante del calore che trasuda dal tessuto di lana ruvida. Nel suo stare rigida e ferma c’è anche la volontà di non svegliare il signor padre con dei rumori involontari. Ma che stupida! e i rumori della carrozza che rotola sulla strada piena di buche, e le urla di Peppino Cannarota che incita i cavalli? e gli schiocchi della frusta? e l’abbaiare dei cani? Anche se per lei sono solo rumori immaginati, per lui sono veri. Eppure lei ne è disturbata e lui no. Che scherzi fa l’intelligenza ai sensi mutilati!
Dalle canne che saltano su indolenzite appena mosse dal vento africano, Marianna capisce che sono arrivati nei pressi di Ficarazzi. Ecco in fondo sulla sinistra il casermone giallo chiamato “a fabbrica du zuccaru”. Attraverso le fessure dello sportello chiuso si insinua un odore pesante, acidulo. È l’odore della canna tagliata, macerata, sfibrata, trasformata in melassa.
I cavalli oggi volano. Il signor padre continua a dormire nonostante le scosse. Le piace che sia lì abbandonato nelle sue mani. Ogni tanto si sposta in avanti e gli tira su il tricorno, gli allontana una mosca troppo insistente.
Il silenzio è un’acqua morta nel corpo mutilato della bambina che da poco ha compiuto i sette anni. In quell’acqua ferma e chiara galleggiano la carrozza, le terrazze dai panni stesi, le galline che corrono, il mare che si intravvede da lontano, il signor padre addormentato. Il tutto pesa poco e facilmente cambia posto ma ogni cosa è legata all’altra da quel fluido che impasta i colori, scioglie le forme.
Quando Marianna torna a guardare fuori dal vetro si trova di colpo davanti al mare. L’acqua è limpida e si butta leggera sui grossi ciottoli grigi. Sopra la linea dell’orizzonte una grossa barca dalle vele flosce si dirige da destra verso sinistra.
Un ramo di gelso si schianta contro il vetro. Delle more porporine vengono schiacciate con forza contro il finestrino. Marianna si scosta ma in ritardo: l’urto le ha fatto sbattere la testa contro lo stipite. La signora madre ha ragione: le sue orecchie non sono buone a fare da sentinella e i cani possono agguantarla da un momento all’altro per la vita. Perciò il suo naso è diventato così fino e gli occhi sono rapidissimi nell’avvertirla di ogni oggetto in moto.
Tratto da La lunga vita di Marianna Ucrìa (Rizzoli, 1990)