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“Il pugno chiuso”, di Arrigo Boito (6)

La triste storia di Simeòn Levy, la tragedia della sua cupidigia e quella del greco Wasili continua fino alle estreme conseguenze.

***

La notte calava. Levy immobile col pugno erto e colla miccia alzata, la cui fiamma oscillante rischiarava la cella, pallido, muto, esitava: giunto a quell’estremo, sentiva la lena mancare. Le scintille e le goccie della miccia gli cadevano sulle dita della mano sinistra già invischiata nella pece. Intanto Wasili curvo davanti lo scrigno aperto faceva le viste di contare i suoi mille fiorini, ma invece intascava quanti gliene capitavano sotto le unghie, abbrancava con una rapidità prodigiosa i rotoli d’oro e le carte monetate, dicendo: «Facciamo i conti». Prendeva occasione dallo sgomento dell’ebreo per rubare a man salva.


A un tratto Levy s’accorse che l’altro lo derubava e gridò:
«Maledetto ladro!» e mosse per corrergli incontro colla torcia ardente e colle braccia tese. Wasili, snello come un vampiro, si voltò, ghermì il sacco di polvere deposto a’ suoi piedi e lo vuotò a terra tutto davanti a sé e davanti allo scrigno, poi girando su Levy la sua faccia terribile,
gli disse con accento più terribile ancora: «Fra te ed il tuo scrigno c’è questo pavimento!» e indicò l’alto e nero mucchio di polvere che lo separava da Levy. Lo scrigno era presso all’uscio. Il tugurio era angusto. Levy tentava invano schermirsi dalla miccia che gli incatramava fatalmente le dita dell’unica mano sana, piovendo innumerevoli faville a’ suoi piedi: spegnerla col soffio era impossibile. La polvere sparsa gli impediva ogni mossa. Aveva davanti una mina. Wasili intanto continuava a rubare e ad ogni rotolo che intascava, diceva ridendo: «Cento imperiali!».
«Mastro! manigoldo!» strillava Simeòn.
«Mille ducati! cinquanta rubli! Ho finito» e fissò l’ebreo col suo volto spettrale.
Nel cervello dell’ebreo tuonava l’accento del fantasma quando gli disse: «Ecco il fiorino della tua usura!». Gli pareva che la pietrificazione del pugno avesse già invaso tutto il suo corpo.
Ma repente si scosse e urlò:
«Al ladro! al ladro! al ladro!».
Il ladro non c’era più. S’udì il rumore di un briska che partiva e il galoppo di due cavalli. Mezzo minuto dopo, le persone che passavano per via udirono un fragore di vetri spezzati venir dalla cella di Levy e videro alla finestra lui che gridava e subito dopo una miccia ardente cadere. Coloro che salivano alle grida trovarono Levy svenuto per terra.

Tutti gli abitanti di Czenstokow ciarlavano già allegramente della catastrofe dell’ebreo, intercalando i motti piacevoli e l’ironia alla narrazione e ai commenti. Israeliti e cristiani, donne e uomini gongolavano; la sciagura del povero avaro fu la buona ventura di tutti. Nessuno pronunziò una parola di compassione, chi sorrise, chi rise, chi sogghignò, chi sghignazzò e chi squittì dalle risa.
«Ecco i frutti dell’avarizia!».
«Ecco i frutti dell’usura!».
«Farina del diavolo… », ecc. ecc.
Questi erano i discorsi della folla. E Wasili, fuggito, non lasciava traccia di sé.

(continua)

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