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“Il pugno chiuso” di Arrigo Boito (4)

Paw prosegue il suo racconto al narratore, il quale non manca di osservarne l’aspetto “fantastico”: proprio della Scapigliatura è infatti il gusto per l’orrido, lo spaventoso e lo straordinario, esemplificati qui anche da versi di Dante.

***

Quando vide Simeòn così trafelato esclamò: «Da quale tregenda di streghe sei tu scappato buon Simeone? Se non ti chiamassero l’Ebreo senza sabato ti crederei arrivato dal Sabba tedesco o dal Sabba lituano, dal Hartz o dalla Lisagora. Che demonio ti sprona?».
«Un demonio no, ma un fantasma è quello che mi sprona», rispose Simeòn, e raccontò a Wasili la visione notturna. Finito ch’ebbe il racconto, Wasili sogghignando nel folto della sua nera barba esclamò: «Iesusmària!» e fece il segno della croce greca toccandosi la fronte, il petto e tagliando una linea trasversale dalla spalla sinistra al fianco destro. La faccia dell’ebreo era tutta sconvolta.
«Mastro Wasili, – disse Simeòn – vi propongo il più bell’affare che abbiate mai fatto. Vi vendo un pezzo di numismatica così prezioso da disgradarne la più rara moneta egiziana. Datemi un fiorino d’oro corrente ed io vi cedo questo fiorino rosso del morto. Qualche diavolo o qualche chirurgo che mi apra questa mano ci dev’essere certo».
«Vediamo il pugno» (rispose Wasili). Il pugno era serrato come una scatola di ferro. «E che mi andate celiando, questa mano è secca».
«Sulla bibbia, vi giuro che in questa mano c’è il fiorino rosso portante il conio di Sigismondo III e la data del 1613; ed è un vecchio fiorino che vale assai più d’un ducato moderno; pesandolo, così, sento che è oro preziosissimo, oro di 24 caratti».
Wasili dopo avere ben bene scrutato l’ebreo e il pugno dell’ebreo disse:
«Stop. Sta bene. Accetto l’affare, ma pongo un patto inesorabile. La tua mano sarà aperta entro tre mesi (voglio essere paziente) ed entro tre mesi tu mi darai la moneta del morto portante il conio di Sigismondo III.
«Voglio essere onesto. Quando vedrò la tua mano aperta e la tua moneta nella mano mia, ti darò mille per uno cioè mille fiorini d’oro per il tuo fiorino rosso. Ma se entro tre mesi non avrò la moneta che stringe quel pugno sarai tu che darai a me mille per uno. Eccoti intanto il fiorino che
chiedi, serbalo per caparra».
Wasili gettò sul tavolo un fiorino d’oro poi sedette ad uno scrittoio estese il contratto, lo lesse a Levy e glielo porse dicendo: «Sottoscrivi».
«Non posso», rispose Levy accennando la destra.
«Sottoscrivi colla sinistra, metti una croce», disse il greco.
«Me ne liberi il profeta! (sclamò l’ebreo scandolezzato) quest’uomo mi farebbe peccare!» prese una penna colla mano sinistra e vergò faticosamente il suo nome. Poscia intascò il fiorino.
«Dunque a rivederci, fra tre mesi, – disse il greco sogghignando – spero che allora potremo stringerci la mano».
«Amen», rispose Levy; e si separarono. Lo stesso giorno l’ebreo di Czenstokow, calcolando sui mille fiorini di Wasili fece una gita a Varsavia dove mutò in carta quasi tutto il suo oro. Il giorno dopo partì per Londra in traccia del dottor Camble.

(Paw tacque ancora per qualche minuto, i suoi polmoni emunti avevano bisogno ad ogni tratto d’un po’ di riposo. Paw prendeva occasione da queste frequenti soste per trangugiare alcuni sorsi di punch. La bevanda forte e bollente gli rendeva ancora qualche guizzo di forza, e ripigliava il racconto. Più che beveva più la sua parola diventava incalzante e la sua faccia allibita. I fatti ch’egli mi narrava dovevano commoverlo violentissimamente perché spesso sollevava il pugno destro per avventarselo alla fronte in atto d’angoscia, ma troncava il gesto a mezzo e tornava tutto sospettoso a
rannicchiare il braccio fra le pieghe della pelliccia. Certo qualche nesso fatale esisteva fra la storia fantastica ch’io stavo udendo ed il fantastico personaggio che me la narrava. Io frugavo negli occhi, nei moti, negli accenti di Paw per indagare il doppio fondo della sua leggenda. Non di rado mi accadeva di smarrire il filo del racconto per la curiosità che mi ispirava il raccontatore. Paw aveva già ripresa la narrazione ed io continuavo a guardarlo fissamente e non lo ascoltavo più. Per una bizzarria della memoria mentre osservavo l’uomo quasi terribile che mi stava davanti udivo un rombo incessante nel mio cervello che ripeteva quel frammento di terzina dantesca dove è descritta la dannazione degli avari e dei prodighi:

Questi risurgeranno dal sepulcro
Col pugno chiuso e quelli co’ crin mozzi.

E queste ventidue sillabe dell’inferno facevano e rifacevano il loro corso nel mio cervello simili al girare d’un aspo. A un tratto fui scosso dalla seguente frase): «Signore, – disse il medico – quel pugno non s’apre più». Levy non si scoraggiò menomamente, andò da un altro dottore il quale gli consigliò la cura de’ fanghi, e garantì di guarirlo.

Levy intraprese la cura; per un mese tutti i dì egli teneva la mano immersa in una gora tiepida e fetente. Il morbido contatto della melma rammolivagli i muscoli irrigiditi, spesso Levy era colto da un balzo di gioia indicibile; sentiva le sue dita stendersi lente, lente, e la cavità del suo palmo dilatarsi, e i pori dell’epidermide inumidirglisi di madore benefico ed un acre vischio maligno sciogliersi dalle falangi e la tenera carezza del fango vivificare già le ossa ed i nervi della misera mano; Levy sentiva i tendini vibrare e scorrere il sangue fino all’unghie. La mano sepolta nel palude era già semiaperta, già quasi aperta, la moneta vi scivolava entro, allora Levy per tema di smarrire nel fango il fiorino rosso estraeva rapidamente la mano. Il pugno era sempre chiuso! Tutti i giorni Levy subiva lo scherno di questa illusione.

Compiuto il mese di cura, l’ebreo non fu sanato e partì per Vienna ove dimorava a que’ tempi un celebre medico. Questi suggerì al malato i bagni elettrici. Levy sommerse allora il suo pugno in un recipiente metallico pieno d’acqua salata su cui agiva una potentissima corrente di pila voltaica.
L’elettricità percorreva il braccio dell’ebreo per un’ora continua quotidianamente. Levy scuoteva il pugno nell’acqua e allora sentiva una forma circolare, piatta e dura che gli si agitava dentro, come l’animella d’un sonaglio scrollato. Ma Levy non guarì. Passò a Parigi. Raccontò ad un altro famosissimo medico la sua storia meravigliosa, e poi che l’ebbe narrata aspettò la risposta dell’uomo sapiente. Costui sorrise un poco, guardò la mano e disse: «Questa mano è un singolare esempio di stimmatizzazione, voi m’offrite in sommo grado una prova della reazione delle idee sull’organismo, siete un interessante soggetto per la scienza; la fisiologia, l’ipnologia vi terrebbero in grande onore, ma non guarirete mai. Per aprire il vostro pugno non v’è che un mezzo solo: amputarlo».

(continua)

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