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“Il pugno chiuso” di Arrigo Boito (3)

Paw narra il sogno dell’usuraio Simeòn Levy: come altrove nella letteratura degli Scapigliati, anche nel racconto di Boito si manifesta l’inconscio, luogo di ansie, desideri, premonizioni.

***

La notte che compì il mezzo secolo, salì nel solaio dove abitava, aperse lo scrigno e si mise a far conti. Contò pila per pila i ducati d’oro d’Olanda, gli imperiali di Russia, i talleri d’argento prussiani, contò fascio per fascio le banconote e le cambiali, beandosi alla vista del suo milione. Già mezzo milione era contato, già settecento mila fiorini erano contati, già era contato quasi l’intero milione di fiorini, quando s’accorse che per fare la somma rotonda gli mancava un fiorino d’oro. Felice per la ricchezza che aveva sott’occhi e disperato ad un tempo pel fiorino che gli mancava, si coricò. Non poteva chiuder occhio. Si rammentò con dispetto che una settimana prima era morto a Czenstokow un povero studente al quale egli aveva prestato ad usura. Il debito ammontava alla somma di un fiorino rosso (moneta equivalente ad un ducato d’ oro) proprio la somma che gli
mancava. Lo stato d’indigenza in cui era morto il debitore toglieva all’ebreo ogni speranza di ricuperare la moneta perduta; per ricuperarla Simeòn avrebbe volentieri dissotterrato il cadavere e venduto le misere ossa.
«La morte mi ha derubato (pensava Levy) a mia volta posso derubare la morte. Quello scheletro mi appartiene». Meditava già di far valere i suoi diritti sul funebre metro di terra sotto il quale stava sepolto in cimitero il debitore suo. Il fiorino rosso era nel centro del cervello di Levy come un
ragno nel mezzo della sua tela, tutti i pensieri di Simeòn cadevano nel fiorino d’oro. Quella moneta d’oro che non aveva, gli abbagliava la mente, come la macchia ritonda che resta nella pupilla dopo aver fissato il sole. Levy si riaffermò sempre più nell’idea di vendere il morto per riguadagnar la moneta e con questo pensiero da jena più che uomo, si addormentò.
Ed ebbe un sogno così violento che gli parve realtà.

Sognò che un amaro odore di putredine l’aveva desto e che una figura funerea gli stava davanti! Quell’orribile fantasma aveva le gambe allacciate dal legaccio mortuario, camminava a fatica e nella mano sinistra teneva un oggetto rotondo che brillava. «Il mio fiorino rosso!» sclamò l’avaro. Era infatti un vecchio fiorino d’oro col conio di Sigismondo III e la data del 1613. Parve a Levy che il morto gli dicesse con voce soffocata dalla terra
che gli otturava la bocca: «Vengo a pagare il debito mio. Ecco il fiorino della tua usura».

L’ebreo tremava. Il morto replicò, il suo aspetto era terribile; portava sul capo una zolla del sepolcro, e le radici delle ortiche gli crescevano nelle fosse nasali, la sua parola d’offerta suonava come una minaccia. L’ebreo continuava a tremare. Il morto replicò una terza volta. Levy affascinato
dalla luce del fiorino rosso, s’inginocchiò, stese la mano, il morto avvicinò la sua, la moneta cadde nel palmo dell’ebreo. Lo spettro scomparve; il sogno cessò. Levy si nascose sotto le coltri serrando stretto il fiorino d’oro nel pugno. All’alba aperse gli occhi, saltò giù dal letto, corse allo scrigno per gettarvi la moneta che completava il milione, non poté, la mano gli si era rattratta durante la notte, né sapeva più disserrarla. I suoi muscoli facevano degli sforzi impotenti; il pugno s’era chiuso. (Qui Paw sospese un istante il racconto, una forte emozione traspariva sul suo volto, gli versai ancora un bicchiere di punch, per rinfrancarlo. Bevette e i suoi occhi si rianimarono. Osservai per la terza volta che Paw pigliava sempre il bicchiere colla mano sinistra, e che la destra la teneva celata nella sua vecchia pelliccia di pelle di capra).

Paw continuò: Il pugno era chiuso! Levy benché desto e in faccia alla luce del giorno, sentiva ancora gli orli del fiorino d’oro che gli premevano l’interno della mano. E poi la contorsione stessa del pugno provava evidentemente la realtà del prodigio. Il milione era completo e questa idea lo beava tutto. Il fiorino che mancava nello scrigno ne lo possedeva, lo palpava, lo stringeva nel pugno. Pure avrebbe voluto vederlo, avrebbe voluto collocarlo insieme agli altri in d’una di quelle sue belle pile luccicanti. A un tratto gli balenò un pensiero, indossò la sua tunica ed escì; attraversò molte contrade, s’arrestò ad un uscio, picchiò, gli fu aperto, salì una scala e salendo si mise a gridare con voce tremebonda d’ansia:
«Mastro Wasili! Mastro Wasili!».

La porta d’una camera s’aperse. Levy entrò. Mastro Wasili gli stava di fronte. Costui era un antiquario russo, molto erudito e molto scaltro, uno di quelli che torcono in male la scienza, come altri torcono in male la forza. «Io lo conobbi (diceva Paw) quand’ero guardiano al tesoro del Santuario, spesso egli soleva dirmi che se la pietra filosofale consisteva nel mutare in oro le cose le più volgari egli l’aveva scoperta. Infatti Wasili per ogni sesterzio antico falsificato guadagnava un vero imperiale d’oro. In fine, mastro Wasili, dottore, professore, antiquario, numismatico, paleologo, chimico era un ladro».

(continua)

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