Continua la narrazione, i sintomi visibili della malattia vengono associati a cause di ordine psicologico.
Continua la narrazione di Boito nella quale i sintomi visibili della malattia vengono associati a cause di ordine psicologico. Come in altre opere della Scapigliatura milanese (si pensi a Fosca di Iginio Urgo Tarchetti), l’elemento irrazionale condiziona, deformandola, la “normalità” conosciuta. Non è un caso che la terribile malattia della plica si sviluppi in Polonia – luogo remoto, altrove non solo geografico ma anche psichico e simbolico.
***
Quella scena mi aveva quasi atterrito, quel personaggio mi aveva commosso. La pietà che si scompagna di rado dall’egoismo della curiosità mi attirava verso quello sventurato. Egli camminava lento, sotto la mitraglia delle pietre, con passo grave da stoico. Io movevo veloce per raggiungerlo.
Avevo dinanzi a me un meraviglioso problema di scienza e fors’anche un fatale argomento di dramma. Quel paria dei mendicanti, quel patriarca della plica colle tempie così atrocemente segnate, quell’uomo vilipeso, percosso, a cui era tolto perfino l’estremo rifugio sociale, l’elemosina, quel
lugubre Paw m’invadeva il pensiero. Avevamo percorso un buon tratto di collina, la bufera dei sassi era cessata. Giunto all’ultimo girone della discesa, il personaggio che seguivo s’arrestò, alzò il pugno destro al cielo in atto di rivolta e di dolore, indi riprese il cammino. Gli stavo a due metri di distanza, lo chiamai: “Paw!”. Nell’udirsi chiamato accelerò il passo, paurosamente. Allora gli venni d’accosto e gli dissi: «Amico. Eccoti dieci kopiechi, invece d’uno», e gli porsi il denaro. Paw mi guardò meravigliato e sclamò: «La Santa Vergine di Czenstokow vi benedica, eccellente padrone, e dia la salute a voi e la pace ai vostri morti». Sclamando ciò, egli si era curvato fino a terra per abbracciarmi le ginocchia, io mi ritrassi un poco.
Il sole tramontava, i lembi del colle erano immersi in un’ombra fresca, azzurrina che saliva lentamente come una tranquilla marea. La brezza della sera soffiava e mi scuoteva i capelli sul viso ma la chioma di Paw resisteva al vento come una roccia. Il berretto, che chi sa da quanti anni egli
non poteva più tenere sul capo, gli pendeva al collo appeso ad uno spago.
«Buon uomo – gli dissi – l’ora è tarda ed hai mendicato abbastanza, vieni a riscaldarti lo stomaco con un bicchierino di acquavite». «La Madonna del Santuario vi tenga sotto la sua buona guardia» mormorò e un caldo lampo di gratitudine brillò nella sua pupilla nervosa. Poi che fummo discesi fino all’ingresso della città alla prima osteria che incontrammo entrai. Paw mi seguì. La taverna, degna del dialogo che stava per incominciare, era un bugigattolo cupo, tutto impregnato di vapore denso. Sorgeva in un angolo una stufa gigantesca che fumava come un cosacco, e in un altro angolo sdraiato su d’un tavolo vedevasi un cosacco colla sua pipa in bocca che fumava come una stufa. L’immagine della Madonna era inchiodata alla parete di mezzo: un triste lumicino le ardeva davanti.
Mi accovacciai nel cantuccio più oscuro della taverna; accennai a Paw una sedia che mi stava di fronte. Comandai: rhum e acqua calda. Accesi due bicchieri di punch e ne porsi uno al mio uomo. La sera inoltrava, la fiamma del punch spandeva un riverbero verdognolo e vacillante sulla faccia scialba del mio commensale ch’io esaminavo curiosamente. Paw co’ suoi capelli irti, coi suoi occhi spalancati, cadaverico, tremante, pareva il fantasma del Terrore. Dopo alcuni minuti di silenzio chiesi:
«Buon uomo, quando fu che ti venne questa brutta malattia?».
«La è una lunga storia, padrone».
«Tanto meglio, bevi un altro bicchiere di punch e narrala tutta».
«Questa pettinatura – riprese Paw sorridendo amaramente – mi venne per uno spavento ch’ebbi una notte che passai con Levy».
«Chi è Levy?».
«Il mio padrone lo ignora? forse che il mio padrone non è di questi paesi. Codesta di Levy la è un’altra lunga storia».
«Meglio due che una».
Dalle parole di Paw intravedevo già un fatto importante cioè, che la plica poteva essere la conseguenza d’uno spavento. Tornai a indagare la chioma del mio malato; nel contemplarla a lungo un tale terrore mi colse che portai rabbrividendo le mie mani a’ miei capelli, perché mi pareva che la plica fosse già sulla mia testa. Guardai intorno e vidi l’osteria deserta, oste e cosacco esciti. Paw ed io, soli, ci guardavamo in faccia.
Finalmente Paw ruppe il silenzio così:
«Padrone mio; ecco la storia di Levy»:
(Paw narrava la storia che segue con tanta esuberanza di particolari e con un dire così convinto e vivo che sembrava narrasse cose vedute, udite e toccate con mano. A volte trasaliva. Egli si compiaceva nel terrore del suo racconto, la sua parola, i suoi pensieri erano attratti dall’Orrido come da un abisso, un fuoco sinistro, gli brillava negli occhi. Eppure parlando soffriva. Su quell’uomo rivelavasi un riflesso di tragica intelligenza. Io non attenuerò qui menomamente il carattere bieco del suo stile, trascriverò la storia di Levy come l’udii narrare io stesso da quel mendicante, quella sera d’autunno, in quel fosco casolare polacco).
Simeòn Levy di Czenstokow viveva ancora dieci anni fa, ed era il più avaro usuraio del ghetto. Fin da ragazzo girovagava le contrade per raccogliere gli stracci che cadevano dalle finestre e in vent’anni ne radunò una quantità strabocchevole. Vendé i suoi stracci ad una cartiera prussiana pel prezzo, credo, di mille fiorini d’argento e con quel capitale in mano prestò ad usura. Fra i guadagni che ritraeva dai debitori e la sua innata avarizia arrivò in poco tempo a far, di mille, dieci- mila. Levy si vestiva co’ cenci che trovava per via, li cuciva insieme ingegnosamente e se ne faceva la tunica. “Cento piccole monete fanno un rublo, cento piccoli brandelli fanno un vestito” egli
diceva. Levy mangiava regolarmente una volta ogni trent’ore, quando di giorno e quando di notte, con questo sistema egli economizzava, su d’uno spazio d’otto giorni, due giorni di cibo, e otto giorni sullo spazio di un mese.
Tutte le sue abitudini si subordinavano alle sue trent’ore; la giornata di Levy aveva sei ore di più che per gli altri uomini e la settimana un giorno di meno. Il giorno eliminato era il sabato. Lo chiamavano l’Ebreo senza sabato. Levy non riposava mai e per attendere alle sue faccende non abbadava al corso del sole, lo si vedeva correre per la città all’alba o al meriggio o di notte come portava il suo bizzarro calendario. Chi aveva a fare con Levy doveva sottomettersi non solo alla tirannia del suo per cento ma anche alla tirannia delle sue abitudini. “Il sole non è la mia lucerna” soleva ripetere. Intanto Levy arricchiva. Ogni decennio aumentava d’uno zero la cifra del suo capitale. A trent’anni non possedeva che 10.000 fiorini, a quaranta ne aveva 100.000, a cinquanta toccava il 1.000.000.
(continua)
Rispondi