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Le voci di chi abbiamo amato: “Lessico famigliare”, di Natalia Ginzburg

L’8 ottobre 1991 si spegneva a Roma Natalia Ginzburg, una delle voci più importanti del nostro Novecento. La ricordiamo con alcuni brani tratti dal romanzo autobiografico Lessico famigliare, che le valse lo Strega nel 1963.

Furono, i primi anni di Torino, per mia madre, anni difficili; era appena finita la prima guerra mondiale; c’era il dopoguerra, il caroviveri, avevamo pochi denari. A Torino, faceva freddo, e mia madre si lamentava del freddo, e della casa che mio padre aveva trovato prima che noi arrivassimo senza consultare nessuno, e che era umida e buia. Mia madre, a quanto diceva mio padre, s’era lamentata a Palermo, e s’era lamentata a Sassari: aveva sempre trovato modo di brontolare. Ora parlava di Palermo, e di Sassari, come del paradiso terrestre. Aveva, tanto a Sassari come a Palermo, molte amicizie, alle quali però non scriveva, perché era incapace di mantenere rapporti con persone lontane; aveva avuto là belle case piene di sole, una vita comoda e facile, donne di servizio bravissime; a Torino, i primi tempi, non riusciva a trovare donne di servizio. Finché capitò un giorno, non so come, in casa nostra la Natalina: e ci rimase trent’anni.

In verità, se anche brontolava e si lamentava, a Sassari e a Palermo mia madre era stata molto felice: perché aveva una natura lieta, e dovunque trovava persone da amare e dalle quali essere amata, dovunque trovava modo di divertirsi alle cose che aveva intorno, e di essere felice. Era felice anche in quei primi anni a Torino, anni scomodi se non forse duri, e nei quali lei spesso piangeva, per i malumori di mio padre, per il freddo, la nostalgia di altri luoghi, i suoi figli che diventavano grandi e che avevano bisogno di libri, di cappotti, di scarpe, e non c’erano tanti soldi. Era tuttavia felice, perché appena smetteva di piangere, diventava allegrissima, e cantava a squarciagola per casa: il Lohengrin, la Pianella perduta nella neve, e Don Carlos Tadrid. E quando più tardi ricordava quegli anni, quegli anni in cui aveva ancora tutti i figli in casa, e non c’erano soldi, le Immobiliari andavano sempre giù, e la casa era umida e buia, ne parlava sempre come di anni bellissimi, e molto felici. – Il tempo di via Pastrengo, – diceva più tardi, per definire quell’epoca: via Pastrengo era la strada dove abitavamo allora.

La casa di via Pastrengo era molto grande. C’erano dieci o dodici stanze, un cortile, un giardino e una veranda a vetri, che guardava sul giardino; era però molto buia, e certo umida, perché un inverno, nel cesso, crebbero due o tre funghi. Di quei funghi si fece, in famiglia, un gran parlare: e i miei fratelli dissero alla mia nonna paterna, nostra ospite in quel periodo, che li avremmo cucinati e mangiati; e mia nonna, sebbene incredula, era tuttavia spaventata e schifata, e diceva: – In questa casa si fa bordello di tutto.

Tratto da Lessico famigliare (Torino, Einaudi, 1963)

Torino, Italia

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