Nel 1870, su «Il Corriere di Milano» usciva a puntate Il pugno chiuso, racconto dello scrittore e librettista Arrigo Boito (1842-1918). Narrazione morale sul male fisico e sull’avidità, il racconto pone al suo centro la tragica figura dell’ebreo errante.
Nel 1870, su «Il Corriere di Milano» usciva a puntate il racconto Il pugno chiuso, di Arrigo Boito (1842-1918), scrittore e librettista esponente della Scapigliatura milanese. La vicenda prende avvio in un santuario in Polonia, paese dove Boito aveva viaggiato, per proseguire in altre capitali europee. Il tono quasi gotico della narrazione è dato non solo dalla malattia, la plica polonica che colpisce il cuoio capelluto, ma anche dall’insidia costituita dall’avidità umana. Il racconto risente del pregiudizio antisemita assai diffuso nell’Ottocento: è Levy l’usuraio, infatti, ossessionato dal denaro, ad essere la prima vittima della sua stessa cupidigia. Riportiamo per intero le pagine di questa favola morale piena di ombre.
IL PUGNO CHIUSO
Nel settembre del 1867 viaggiavo in Polonia per certa missione medica che mi era stata affidata; doveva fare delle ricerche e degli studi intorno ad una fra le più spaventose malattie che rattristano l’umanità: la plica polonica. Benché questo morbo sia circoscritto nella sola Polonia i suoi strani effetti ed il suo nome sono conosciuti, anche dai profani della scienza, per ogni parte d’Europa; fosserci così pure palesi le sue cause ed i suoi rimedi. V’ha chi sostiene che questa malattia de’ capelli sia epidemica, adducendo ad esempio alcune località lungo la Vistola che ne sono infestate; altri asseriscono che sia prodotta dall’immondezza dei contadini polacchi e dall’uso tradizionale fra quelle genti del tener lunghe le chiome. Una prova in favore di questa seconda opinione si è che la plica apparisce come un flagello esclusivo della più bassa plebe, della più lorda genìa dei servi, dei vagabondi, dei mendicanti. L’avere la plica è in Polonia un titolo per dimandare l’elemosina.
La mia missione mi portava per necessità in pieno conventicolo di tenants, in piena familia contagii. Accettai risolutamente il dovere e incominciai le ricerche.
Appunto nel mese di settembre si solennizzano in quei paesi le feste della Madonna di Czenstokow; questa piccola città gloriosa pel suo antico santuario diventa a que’ giorni il ritrovo dei polacchi di Varsavia, di Cracovia, di Posen, e la dilaniata nazione si ricongiunge così per breve ora, idealmente, nella unità della preghiera. Traggono a frotte, a turbe, dai confini austriaci, dai confini prussiani i devoti, quali a piedi, quali in briska, arrivano alla villa santa, salgono la collina della chiesa pregando, varcano i massicci muri di cinta, che fanno di quel sacro asilo una vera piazza forte da sostenere assalti e battaglie, poi giunti al sommo si prosternano davanti alla porta del tempio; poi s’avanzano chini, compunti e si gettano giù colla faccia sui marmi dell’altare. Molti pregano da quella bruna Madonna tempestata di gemme la salute della povera patria; altri più egoisti perché più sventurati domandano la loro propria salute, il risanamento di qualche loro infermità e abbondano i paralitici, i ciechi, gli storpi, gl’idropici, i cronici d’ogni specie e fra costoro v’ha pure la lurida torma dei malati di plica. Questi ultimi, protetti dallo stesso ribrezzo che incutono, attraversano la folla stipata, la quale s’allarga schivando il loro passaggio, ed arrivano così fino alle più ambite vicinanze dell’altare. Là sotto il riverbero delle lampade d’oro, fra il caldo vapore dei profumi sacri, picchiandosi il petto e la fronte urlano come ossessi le loro preci e gesticolano freneticamente, poi se ne ritornano e si schierano fuori dell’ingresso principale per chiedere l’elemosina a chi esce.
L’anno 1867 ero anch’io alle feste di Czenstokow: la certezza di trovare ivi materia pe’ miei studi mi aveva tratto in mezzo alla pia baraonda. Infatti i soggetti di plica non mancavano; quando io giunsi erano già tutti al loro posto in doppia fila lungo la gradinata dell’atrio, strillando la loro nenia e invocando un kopiec in nome della Vergine. Immondi, orribili tutti, col loro ciuffo irto sulla fronte (e quale l’avea biondo e quale nero e quale canuto) parevano schierati là per ordine mio.
Li squadrai rapidamente, gettai a terra davanti ad essi una moneta di rame, ed entrai nella chiesa. Non avevo camminato dieci passi sotto la vòlta del santuario quando udii fuor della porta un feroce baccano come di veltri latranti e di pietre percosse e in mezzo al tumulto la parola przeklety (maledetto) urlata con beffardo repetio. Mi volsi verso la parte di dove veniva il tafferuglio ed escii. Un odioso spettacolo fu quello che io vidi.
Vidi un gruppo ululante di cenciosi arruffati in terra circa sul luogo dove avevo gittato il kopiec.
Su quel confuso allacciamento di persone non apparivano che le teste nefande e le braccia furenti. Alcuni stringevano in mano una pietra e s’avventavano con quella su qualche ignota cosa che l’intera massa del gruppo celava.
«Dài al rosso! dài al maledetto! Dài al patriarca», gridavano alcuni.
«Dài al ladro dei poveri! dài al tesoriere!» strillavano altri.
«Quel kopiec non è per te. Tu hai già il fiorino rosso di Levy».
“Ammazza! Paw è un impostore, ha la plica finta; l’ho visto io ingommarsi i capelli per parer più bello di noi”.
“Tiraglieli!” ed allora un vecchio accattone membruto si gettò in mezzo a quel brulicame e con voce più minacciosa degli altri gridò: “Paw! apri quel pugno o ti tiro pel ciuffo” E accompagnò con un gesto la minaccia.
In quel momento (pari ad una molla che scatta, dopo essere stata con violenza compressa) sorse dal suolo un uomo lungo, nervoso, giallastro, magrissimo. Il suo balzo fu tale che tutti coloro che gli stavano sopra percuotendolo, stramazzarono a terra in un lampo. I capelli di quest’uomo erano più orrendi degli altri per la loro tinta rossastra e per la loro smisurata lunghezza; parevano sulla fronte di quel disgraziato una mitria sanguinosa, alta e dura. Forse per ciò lo chiamavano il patriarca. Non avevo mai visto un caso più spaventoso di plica. Quell’uomo mitrato, erto, immobile sul floscio branco dei mendicanti caduti, protendeva orizzontalmente le braccia come una croce viva e serrava le pugna con rigido atteggiamento. Dopo un istante aperse il pugno sinistro, lasciò cadere il kopiec, non disse parola.
“Apri anche l’altro”, gridavano in coro gli accattoni sghignazzando, ma l’altro pugno restò chiuso. Paw calò con lentezza le braccia e s’avviò verso la discesa della collina. Mentre si allontanava una tempesta di ciottoli e di bestemmie lo assaliva alle spalle. Io lo seguivo a trenta passi di distanza.
(continua)
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