Dall’autobiografia di Ada Negri (Lodi 1870 – Milano 1945), una pagina che ritrae la giovane poetessa, allora giovane maestra, nella campagna cremonese.
In treno per Pandino, rozza borgata della Bassa, un pomeriggio dell’ultima dècade d’agosto. Alcune violente febbri nervose l’hanno lasciata pallida pallida e senza forze: le narici le si sono affilate: un plumbeo cerchio alla fronte non l’abbandona mai. La mamma, preoccupata, le ha detto: – Scrivi alla zia Nunzia, chiedile che t’accolga per qualche settimana nella sua fattoria. Non può dirti di no: in fin de’ conti sei la figliuola di suo fratello!… Respirerai un poco d’aria libera, farai buon sangue: devi pur metterti in buone condizioni, per lavorare quest’autunno. In casa di contadini si mangia male, lo so; ma per donne come noi, avvezze al latte e alla minestra, ce n’è fin troppo. […] Ed eccola in treno per Pandino. Quante mosche!… E che peso di afa!… Il trenino procede a stento, tutto sbalzi e scossoni: nello scompartimento di terza classe, sozzo di cartacce e di detriti, pochi villici male odoranti discorron fra loro di mucche e di raccolti, masticando tabacco e scaracchiando in libertà: una popolana in un angolo allatta il suo bambino, con le palpebre chiuse sotto l’oppressione della calura; e gocce di sudore sporco le colano lungo l’incavo dei seni. Zia Nunzia è pronta al cancello della stazioncina del borgo: aguzza gli occhietti, ride da tutte le rughe, stende le braccia. È piccola, rotonda, bonaria; ma perché tante rughe?… Il suo largo viso è un crivello. […] S’avviano, a piedi, per scorciatoie fra i campi, verso la casa colonica. L’eccessivo calore ha velato il sole: il sereno è scomparso nell’indeterminatezza d’accecanti vapori: tutto è grigio di polvere, sofferente di sete, immobile in stupefazione. Gran quantità di domande va rivolgendo zia Nunzia alla nipote, che le risponde con dolcezza; ma pensando ad altro. Anzi non pensa a nulla. Respira, con dilatati polmoni, ne’ suoi elementi naturali: la campagna, e l’estate. Tutti i suoi sensi rispondono, docili, soddisfatti, a quella pianura che non rivela altri confini se non il cielo; e riposano, senza desidèri, in quella fissa uniformità lineare. Nei campi si lavora; ma le figure dei contadini forman parte della smisurata solitudine. Lavorano, o pregano?… Ella sente che potrebbe pregare qui, fra le distese del granoturco e gli aromi dell’agostano, come sotto le arcate della chiesa di San Francesco. Le sono ignoti, sinora, i mari, le colline, le montagne. […] A pochi passi dalla casa colonica, il lezzo d’un letamaio le ferisce le nari, le penetra nella gola e nello stomaco, con violenza d’acredine sensuale; ma non l’urta: anzi, le piace, come un forte liquore. Le sembra che il respirarlo a lungo la renderà ubbriaca; ma nel medesimo tempo la guarirà. Anche l’aia le piace, ben battuta, con il portico ingombro di carri e d’attrezzi rurali, con un fico nano abbarbicato all’angolo di levante, e all’ingiro i colmi fienili e piú in là le stalle: anche la cucina, con il basso focolare e i piatti a fiori smaglianti nelle rastrelliere, e molte panche torno torno, come all’osteria: sulle quali si mangia con la ciotola in mano. […] Il cielo sull’aia è basso, cielo d’agosto pesante di stelle: a tratti ne muore qualcuna, con uno strappo e un guizzo d’agonia. […] Dura, inquieta, torbida notte: in un letto dal pagliericcio crocchiante e pungente, dalle lenzuola di ruvida canapa, fra rauco russare di donne massicce in traspirazione. Da poco è assopita, quando un richiamo la fa sobbalzare, stridendole negli orecchi. È il canto del gallo. Non l’udì mai in piena campagna: né così vicino, così contropelle. Leggerissimamente posa i piedi a terra: nessun movimento nei letti accosto. Dormono tutti ancóra, anche nelle altre camere; ma sarà, certo, per poco. Ella esce, pian piano, sul ballatoio di legno. Ripete il gallo la sua cantata: la voce aspra, imperiosa, piena di letizia e di prepotenza, sega l’aria con acutissime punte. Dalle cascine, dalle casupole, altri gli rispondono, con allegria aggressiva, quasi feroce. — Su!… Basta dormire!… Basta sognare!… Su, al lavoro!… Scampo non c’è!… È la prealba immobile. All’orizzonte, sola, la stella mattutina, intenta come uno sguardo. Alla giovinetta la campagna ancor non appare che quale una massa d’ombra, rotta qua e là da grigi fantasmi di casolari; e pure la sente fradicia di guazza, tutta fresca e pronta per la nuova giornata.
Milano, luglio-dicembre 1920.
Rispondi