Ne Il barone rampante, Italo Calvino fa sfoggio delle sue estese conoscenze in materia di botanica. Non è un caso: il romanzo offre ai lettori anche una riflessione sulla necessità di curare e proteggere il nostro delicato quanto straordinario patrimonio naturale.
Che Italo Calvino (1923-1985) sia stato una grande conoscitore di piante è probabilmente noto alla maggior parte dei lettori. Chi ricorda qualcosa della sua biografia sa infatti che lo scrittore proveniva da una famiglia di scienziati dediti allo studio e conservazione della Natura: agronomo il padre, botanica la madre. Di qui che il giovane Italo abbia assorbito “succhi” di conoscenza ampiamente presenti nell’ambito degli interessi famigliari, succhi che costituiranno altrettanta “linfa” per la sua assai feconda scrittura. Basti pensare al primo romanzo, Il sentiero dei nidi di ragno, scritto a soli 24 anni all’indomani della fine della guerra. Nella storia di Pin, il bambino protagonista, la campagna con i suoi terricci e le sue tane è parte integrante della narrazione, come lo stesso titolo indica.
Tra i romanzi dello scrittore, cubano di nascita ma ligure per ascendenza, spicca inevitabilmente, per la gioiosa, favolistica immaginazione che lo contraddistingue, Il barone rampante, opera straordinaria dove la sbrigliata fantasia di Calvino si avvale della profonda conoscenza del mondo vegetale posseduta dallo scrittore. E’ a questa conoscenza che desideriamo continuare a dedicare, come già fatto in precedenza e come si continuerà a fare in futuro, qualche pagina. Una parte importante della riflessione di Calvino verte infatti sulla questione del patrimonio naturale, sul suo degrado e sulla sua distruzione. E’ per questo che per tutti noi, abitanti di un mondo in cui interi ecosistemi si trovano in pericolo, si rende sempre più necessario amare e proteggere il verde; conoscerlo, rispettarlo e tramandarlo intatto, se non arricchito, alle generazioni future. Ecco dunque a noi un frammento delle avventure arboree di Cosimo, il giovane barone rampante.
Gli olivi, per il loro andar torcendosi, sono a Cosimo vie comode e piane, piante pazienti e amiche, nella ruvida scorza, per passarci e per fermarcisi, sebbene i rami grossi siano pochi e non ci sia gran varietà di movimenti. Su un fico, invece, stando attento che regga il peso, non s’è mai finito di girare; Cosimo sta sotto il padiglione delle foglie, vede in mezzo alle nervature trasparire il sole, i frutti verdi gonfiare poco a poco, odora il lattice che geme nel collo dei peduncoli. Il fico ti fa suo, t’impregna del suo umore gommoso, dei ronzii dei calabroni; dopo poco a Cosimo pareva di stare diventando un fico lui stesso e, messo a disagio, se ne andava. Sul duro sorbo, o sul gelso da more, si sta bene; peccato siano rari. Così i noci, che anche a me, che è tutto dire, alle volte vedendo mio fratello perdersi in un vecchio noce sterminato, come in un palazzo di molti piani e innumerevoli stanze, veniva voglia d’imitarlo, d’andare a star lassù; tant’è la forza e la certezza che quell’albero mette a essere albero, l’ostinazione a esser pesante e duro, che gli s’esprime persino nelle foglie.
Tratto da Il barone rampante, di Italo Calvino (Mondadori 1993).
Veramente la natura e sempre motivo di comtemplazione e
Riflexione…
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Grazie del commento, è assolutamente vero. Tra l’altro, anche se “Il barone rampante” presenta le avventure di Cosimo ed ha quindi pagine di azione, le descrizioni della natura sono molto particolareggiate, e il lettore può perfettamente scegliere di restare immobile, nascosto nel fogliame alla pari del giovanile eroe del racconto.
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