Una Palermo del XIX secolo, circondata da boschi e da montagne, appare nel romanzo I leoni di Sicilia, di Stefania Auci.
Il romanzo I leoni di Sicilia, di Stefania Auci (Trapani 1974), narra l’epopea dei Florio, famiglia di umili commercianti calabresi che decidono di emigrare in Sicilia. Qui le pagine che descrivono Palermo quale si presenta nel 1799 agli occhi del giovane Ignazio Florio, fratello minore di Paolo. Dopo la morte di Paolo, sarà Ignazio a portare avanti la piccola aromateria familiare fino a convertirla in una solida azienda, importatrice di spezie e materie preziose da ogni parte del mondo.
Ignazio trattiene il fiato. E’ sempre così. Ogni volta che lo schifazzo arriva in vista del porto di Palermo, sente una morsa allo stomaco, proprio come un innamorato. Sorride, stringe il braccio di Paolo e suo fratello ricambia il gesto. No, non lo ha lasciato a Bagnara, lo ha voluto con sé.
-Contento?- chiede. Lui annuisce, gli occhi che brillano e il petto che si lascia invadere dalla bellezza di quella città. Si aggrappa alle cime, si protende verso il bompresso. Ha lasciato la Calabria, la sua famiglia o quel che ne resta. Ma ora, con gli occhi pieni di cielo e di mare, non ha più timore per il futuro. Il terrore della solitudine è un fantasma. Il respiro si ferma davanti al sovrapporsi di sfumature diverse di un medesimo azzurro su cui spiccano le mura che racchiudono il porto, immerse nel pomeriggio. Con gli occhi fissi sulle montagne, Ignazio accarezza l’anello nuziale della madre, che indossa all’anulare destro. L’ha messo al dito per non rischiare di perderlo. In realtà, quando lo tocca, ha la sensazione di avere ancora la madre vicino, di poterne sentire la voce. Lo chiamava, l’ha ascoltato. Davanti a lui la città si svela, prende forma.
Cupole di maiolica, torri merlate, tegole. Ecco la Cala, affollata di feluche, brigantini, schooner, un’insenatura a forma di cuore, stretta tra due lingue di terra. Attraverso la selva di alberi di navi, s’intravedono le porte, incastonate dentro palazzi, letteralmente costruiti sopra di esse: porta Doganella, porta Calcina, porta Carbone. Case abbarbicate, affastellate, come a cercare di farsi spazio per trovare un po’ di vista sul mare. A sinistra, seminascosto dai tetti, il campanile della chiesa di Santa Maria di Porto Salvo; poco oltre, s’intravedono la chiesa di San Mamiliano e la torre stretta della chiesa dell’Annunziata, e poi ancora, quasi a ridosso delle mura, la cupola ottagonale di San Giorgio dei Genovesi. A destra, un’altra chiesa, piccola e tozza, Santa Maria di Piedigrotta, e la sagoma imponente del Castello a Mare circondato da un fossato; poco oltre, su una lingua di terra che s’inoltra in mare, il lazzaretto per la quarantena dei marinai malati. Su ogni cosa incombe il monte Pellegrino. Dietro, una cintura di montagne coperte di boschi. C’è un profumo che arriva dalla terra e aleggia sull’acqua: un misto di sale, frutta, legna bruciata, alghe, sabbia. Paolo dice che è l’odore della terraferma. Ignazio, invece, pensa che sia il profumo di questa città. Arrivano i rumori di un porto in piena attività. L’aroma del mare viene soppiantato da un tanfo acre: letame, sudore e pece, insieme con quello dell’acqua morta.
Tratto da I leoni di Sicilia, di Stefania Auci, edito nel 2019 da Casa Editrice Nord.
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