Il 27 gennaio è il Giorno della memoria, in cui si commemora la tragedia dell’Olocausto. La ricordiamo anche noi con “La Storia”, di Elsa Morante (1912-1985)
Pubblicato nel 1974, il colossale romanzo di Elsa Morante narra la guerra dal punto di vista degli ultimi, con uno sguardo carico di pietas verso gli umili e un amore rinnovato e profondo per il mondo dei bambini. Ida Ramundo, maestra elementare ebrea rimasta vedova, vive a Roma con il figlio Nino. A causa di una violenza subita da un giovane soldato tedesco, ha un secondo bambino, il gioioso quanto gracile Useppe. Le loro esistenze si intersecano con quelle degli abitanti dei quartieri popolari di Roma – San Lorenzo, Testaccio, Portico d’Ottavia nel ghetto ebraico – e in periferia, a Pietralata, dove la popolazione si rifugia per sottrarsi ai bombardamenti. Il libro si articola lungo un periodo che va dal 1941 al 1947, anno della morte di Useppe, ma è corredato di cronologie comprendenti eventi anteriori al ventennio fascista e posteriori alla seconda guerra mondiale, illuminando il lettore sui nuovi conflitti internazionali.
Riportiamo qui una pagina del romanzo che rievoca la terribile notte del 16 ottobre 1943, quando il ghetto romano fu rastrellato dai tedeschi e i suoi abitanti vennero deportati. Qui il momento in cui cui Ida, camminando per la città con il piccolo Useppe, arriva alla stazione ferroviaria di Roma Tiburtina, dove diviene testimone impotente del dramma ormai compiutosi. Anni più tardi, la morte si prenderà anche Useppe.
L’invisibile vocio si andava avvicinando e cresceva, anche se, in qualche modo, suonava inaccessibile quasi venisse da un luogo isolato e contaminato. Richiamava insieme certi clamori degli asili, dei lazzaretti e dei reclusorii: però tutti rimescolati alla rinfusa, come frantumi buttati dentro la stessa macchina. In fondo alla rampa, su un binario morto rettilineo, stazionava un treno che pareva, a Ida, di lunghezza sterminata. Il vocio veniva di là dentro.
Erano forse una ventina di vagoni di bestiame, alcuni spalancati e vuoti, altri sprangati con lunghe barre di ferro ai portelli esterni. Secondo il modello comune di quei trasporti, i carri non avevano nessuna finestra, se non una minuscola apertura a grata posta in alto. A qualcuna di quelle grate, si sporgevano due mani aggrappate o un paio d’occhi fissi.
Secondo le cifre ufficiali, tra le vittime dei campi di sterminio vi furono un milione e mezzo di bambini.
Ludovica Valentini
Una lettura imprescindibile.
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