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L’infanzia negli anni della ricostruzione ne “L’amica geniale” di Elena Ferrante

Nel romanzo di Elena Ferrante, l’azione trascorre nella Napoli degli anni ’50, dove resti del conflitto bellico sono ancora presenti mentre l’Italia della ricostruzione si avvia al miracolo economico.

L’amicizia tra Elena Greco e Lila Cerullo, le due protagoniste de L’amica geniale di Elena Ferrante, nasce sui banchi di scuola di una Napoli sventrata dalla guerra. Il rione popolare dove vivono con le loro famiglie, confina con la strada ferrata e con l’aperta campagna; oltre alle case, alla parrocchia e ai giardinetti c’e solo uno stradone. Tutto è ancora da costruire o ricostruire, e la popolazione vive in condizioni precarie, esposta alle malattie e agli incidenti sul lavoro. Una situazione che si è modificata nel corso dei decenni ma non è scomparsa del tutto: nell’agosto 2019, le morti bianche registrate durante l’anno erano già 97.

Vivevamo in un mondo in cui bambini e adulti si ferivano spesso, dalle ferite usciva il sangue, veniva la suppurazione e a volte morivano. Una delle figlie della signora Assunta, la fruttivendola, si era ferita con un chiodo ed era morta di tetano. Il figlio più piccolo della signora Spagnuolo era morto di crup alla gola. Un mio cugino, all’età di vent’anni, una mattina andò a spalare macerie e la sera  era morto schiacciato, col sangue che gli usciva dalle orecchie e dalla bocca. Il padre di mia madre era rimasto ucciso perché stava costruendo un palazzo ed era caduto giù. Il padre del signor Peluso non aveva un braccio, gliel’aveva tagliato il tornio a tradimento. La sorella di Giuseppina, la moglie del signor Peluso, era morta di tubercolosi a ventidue anni. Il figlio grande di don Achille – non l’avevo mai visto, eppure mi pareva di ricordarmelo – era andato in guerra ed era morto due volte, prima annegato nell’oceano Pacifico, poi mangiato dai pescecani. Tutta la famiglia Melchiorre era morta abbracciata, urlando di paura, sotto un bombardamento. La vecchia signorina Clorinda era morta respirando il gas invece dell’aria. Giannino, che stava in quarta quando noi eravamo in prima, un giorno era morto perché aveva trovato una bomba e l’aveva toccata. Luigina, con cui avevamo giocato in cortile o forse no, era solo un nome, l’aveva uccisa il tifo petecchiale. Il nostro mondo era così, pieno di parole che ammazzavano: il crup, il tetano, il tifo petecchiale, il gas, la guerra, il tornio, le macerie, il lavoro, il bombardamento, la bomba, la tubercolosi, la suppurazione. Faccio risalire le tante paure che mi hanno accompagnata per tutta la vita a quei vocaboli e a quegli anni.

Si poteva morire anche di cose che parevano normali. Si poteva morire, per esempio, se sudavi e poi bevevi l’acqua fredda del rubinetto senza esserti prima bagnata i polsi: succedeva che ti coprivi di puntini rossi, ti veniva la tosse e non potevi respirare più. Si poteva morire se mangiavi le ciliegie nere senza sputare il nocciolo. Si poteva morire se masticavi la gomma americana e per distrazione la ingoiavi. Si poteva morire soprattutto se prendevi una botta alla tempia. La tempia era un posto fragilissimo, ci stavamo tutte molto attente. Bastava una sassata, e le sassate erano la norma.

[…] Non ho nostalgia della mia infanzia, è piena di violenza. Ci succedeva di tutto, in casa e fuori, ogni giorno, ma non ricordo di aver mai pensato che la vita che c’era capitata fosse particolarmente brutta. La vita era così e basta, crescevamo con l’obbligo di renderla difficile agli altri prima che gli altri la rendessero difficile a noi.

Tratto da L’amica geniale, di Elena Ferrante, edizioni e/o

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