Migrazioni: “Il lungo viaggio”, di Leonardo Sciascia (4)

Termina il racconto di un viaggio alla ricerca di una vita migliore. I nostri emigranti di allora somigliano a quelli di oggi e l’Italia, da cui molti partirono, è divenuta per altri l’America sognata

Sentirono, lontano e irreale, un canto. «Sembra un carrettiere nostro», pensarono: e che il mondo è ovunque lo stesso, ovunque l’uomo spreme in canto la stessa malinconia, la stessa pena. Ma erano in America, le città che baluginavano dietro l’orizzonte di sabbia e d’alberi erano città dell’America. Due di loro decisero di andare in avanscoperta. Camminarono in direzione della luce che il paese più vicino riverberava nel cielo. Trovarono quasi subito la strada: «asfaltata, ben tenuta; qui è diverso che da noi», ma per la verità se l’aspettavano più ampia, più dritta. Se ne tennero fuori, ad evitare incontri: la seguivano camminando tra gli alberi. Passò un’automobile: «pare una seicento»; e poi un’altra che pareva una millecento, e un’altra ancora: «le nostre macchine loro le tengono per capriccio, le comprano ai ragazzi come da noi le biciclette». Poi passarono, assordanti, due motociclette, una dietro l’altra. Era la polizia, non c’era da sbagliare: meno male che si erano tenuti fuori della strada.

Ed ecco che finalmente c’erano le frecce. Guardarono avanti e indietro, entrarono nella strada, si avvicinarono a leggere: Santa Croce Camerina – Scoglitti. – Santa Croce Camerina: non mi è nuovo, questo nome. – Pare anche a me; e nemmeno Scoglitti mi è nuovo. – Forse qualcuno dei nostri parenti ci abitava, forse mio zio prima di trasferirsi a Filadelfìa: che io ricordo stava in un’altra città, prima di passare a Filadelfìa. – Anche mio fratello: stava in un altro posto, prima di andarsene a Brucchilin… Ma come si chiamasse, proprio non lo ricordo: e poi, noi leggiamo Santa Croce Camerina, leggiamo Scoglitti; ma come leggono loro non lo sappiamo, l’americano non si legge come è scritto.

– Già, il bello dell’italiano è questo: che tu come è scritto lo leggi… Ma non è che possiamo passare qui la nottata, bisogna farsi coraggio… Io la prima macchina che passa, la fermo: domanderò solo «Trenton?»… Qui la gente è più educata. Anche a non capire quello che dice, gli scapperà un gesto, un segnale: e almeno capiremo da che parte è, questa maledetta Trenton.

Dalla curva, a venti metri, sbucò una cinquecento: l’automobilista se li vide guizzare davanti, le mani alzate a fermarlo. Frenò bestemmiando: non pensò a una rapina, che la zona era tra le più calme; credette volessero un passaggio, aprì lo sportello. – Trenton? – domandò uno dei due. – Che? – fece l’automobilista. – Trenton? – Che trenton della madonna – imprecò l’uomo dell’ automobile. – Parla italiano – si dissero i due, guardandosi per consultarsi: se non era il caso di rivelare a un compatriota la loro condizione. L’automobilista chiuse lo sportello, rimise in moto. L’automobile balzò in avanti: e solo allora gridò ai due che rimanevano sulla strada come statue – ubriaconi, cornuti ubriaconi, cornuti e figli di… – il resto si perse nella corsa. Il silenzio dilagò.

Mi sto ricordando – disse dopo un momento quello cui il nome di Santa Croce non suonava nuovo – a Santa Croce Camerina, un’annata che dalle nostre parti andò male, mio padre ci venne per la mietitura. Si buttarono come schiantati sull’orlo della cunetta ché non c’era fretta di portare agli altri la notizia che erano sbarcati in Sicilia.

Tratto da Il mare colore del vino, Torino, 1973

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