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Migrazioni: “Il lungo viaggio”, di Leonardo Sciascia (3)

Nel decennio a cavallo tra ‘800 e ‘900, quasi un terzo degli emigranti ebbe come destinazione il Nord America, bisognoso di manodopera. Con le rimesse, i più fortunati compravano casa o terreno in patria.

Il viaggio durò meno del previsto: undici notti, quella della partenza compresa. E contavano le notti invece che i giorni, poiché le notti erano di atroce promiscuità, soffocanti. Si sentivano immersi nell’odore di pesce di nafta e di vomito come in un liquido caldo nero bitume. Ne grondavano all’alba, stremati, quando salivano ad abbeverarsi di luce e di vento. Ma come l’idea del mare era per loro il piano verdeggiante di messe quando il vento lo sommuove, il mare vero li atterriva: e le viscere gli si strizzavano, gli occhi dolorosamente verminavano di luce se appena indugiavano a guardare.

Ma all’undicesima notte il signor Melfa li chiamò in coperta: e credettero dapprima che fìtte costellazioni fossero scese al mare come greggi; ed erano invece paesi, paesi della ricca America che come gioielli brillavano nella notte. E la notte stessa era un incanto: serena e dolce, una mezza luna che trascorreva tra una trasparente fauna di nuvole, una brezza che dislagava i polmoni. – Ecco l’America – disse il signor Melfa. – Non c’è pericolo che sia un altro posto? – domandò uno: poiché per tutto il viaggio aveva pensato che nel mare non ci sono nè strade nè trazzere, ed era da dio fare la via giusta, senza sgarrare, conducendo una nave tra cielo ed acqua. Il signor Melfa lo guardò con compassione, domandò a tutti – E lo avete mai visto, dalle vostre parti, un orizzonte come questo? E non lo sentite che l’aria è diversa? Non vedete come splendono questi paesi?

Tutti convennero, con compassione e risentimento guardarono quel loro compagno che aveva osato una così stupida domanda. – Liquidiamo il conto – disse il signor Melfa. Si frugarono sotto la camicia, tirarono fuori i soldi. – Preparate le vostre cose – disse il signor Melfa dopo avere incassato. Gli ci vollero pochi minuti: avendo quasi consumato le provviste di viaggio, che per patto avevano dovuto portarsi, non restava loro che un po’ di biancheria e i regali per i parenti d’America: qualche forma di pecorino qualche bottiglia di vino vecchio qualche ricamo da mettere in centro alla tavola o alle spalliere dei sofà.

Scesero nella barca leggeri leggeri, ridendo e canticchiando; e uno si mise a cantare a gola aperta, appena la barca si mosse. – E dunque non avete capito niente? – si arrabbiò il signor Melfa. – E dunque mi volete fare passare il guaio?… Appena vi avrò lasciati a terra potete correre dal primo sbirro che incontrate, e farvi rimpatriare con la prima corsa: io me ne fotto, ognuno è libero di ammazzarsi come vuole… E poi, sono stato ai patti: qui c’è l’America, il dovere mio di buttarvici l’ho assolto… Ma datemi il tempo di tornare a bordo, Cristo di Dio!

Gli diedero più del tempo di tornare a bordo: che rimasero seduti sulla fresca sabbia, indecisi, senza saper che fare, benedicendo e maledicendo la notte: la cui protezione, mentre stavano fermi sulla spiaggia, si sarebbe mutata in terribile agguato se avessero osato allontanarsene. Il signor Melfa aveva raccomandato – sparpagliatevi – ma nessuno se la sentiva di dividersi dagli altri. E Trenton chi sa quant’era lontana, chi sa quando ci voleva per arrivarci. (continua)

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